Non discriminiamo più nessuno, abbiamo attenzione per ogni categoria, tutti ci amiamo e ci rispettiamo, le sensibilità di tutti devono essere prese in considerazione – e l’unica categoria su cui possiamo fare razzismo sono i nostri bambini? C’è qualcosa di profondamente squilibrato in questo. Immaginiamo, del resto, che qualcuno esponga un cartello in cui spiega che, a causa di alcuni spiacevoli precedenti, non sono graditi in un locale gli africani. O i gay. O le donne. O gli uomini. Sarebbe impossibile, mentre invece appare del tutto legittimo, frutto tutt’al più di una burbera bizzarria, escludere i bambini.
Tanto i cattivi genitori che generano mostriciattoli impertinenti quanto gli entusiasti estimatori della linea “no kid”, del resto, sono frutto di una stessa logica, di uno stesso mondo, di una stessa decadenza. È il mondo in cui con il bambino si ha un rapporto non più naturale, in cui egli non fa più parte del paesaggio ovvio, ben confinato nel suo ruolo, ma diventa un’eccezione: graziosa e tenera per chi li ama (e così finisce per viziarli), insopportabile per chi lo odia (che finisce per ghettizzarli). Siamo infastiditi dal rumore dei bambini così come altri vi si commuovono: manca ogni possibile visione lucida fra questi due estremi. Yan Thomas ha definito Roma “la città dei padri”. La cosa va ovviamente intesa in un’accezione molto più che meramente biologica, ma, più prosaicamente, essa risolve anche gli equivoci di questa società malata e schizofrenica: essere padri significa sentire il dovere della discendenza, ma anche la responsabilità della sua educazione. Fare bambini, quindi, contro il solipsismo malato dei borghesi di ogni epoca, ma educarli, anche. Nel nostro mondo mancano entrambi gli aspetti. Alain de Benoist ha giustamente fatto notare, del resto, come nell’antichità il crimine abietto per eccellenza fosse il parricidio laddove invece oggi è l’infanticidio: è tipico di un’era infantilizzata, che divinizza il bambino e così facendo evoca anche la sua maledizione. In entrambi i casi, l’infante è visto come un personaggio eccezionale, dato che non si è capaci di inserirlo in una rete normale di rapporti sociali e familiari.
Viziare i bambini e interdire loro l’accesso ai locali significa quindi esercitare in due modi opposti lo stesso disagio, la stessa incapacità di fronte a ciò che in una società normale è il fondamento del perpetuarsi della vita e che quindi si sa gestire e limitare. Tutti colpevoli allo stesso modo, quindi? No. In un’epoca di catastrofe demografica, ciò che mina la natalità diventa un delitto contro il proprio popolo che non può essere paragonato con la colpa di chi ha generato bimbi insopportabili. La “tranquillità” individualista delle tante monadi tristi che affollano locali alla moda non può diventare la scusa per colpevolizzare l’unica cosa che può garantirci una sopravvivenza. Non sono i bambini, oggi, quelli a cui dovremmo somministrare l’arsenico.
Adriano Scianca
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Viva i “cinni”, come si dice a Bologna! Io ne farei 20, se trovassi la ragazza disposta a farli! E quando li sento trillare mentre giocano e mi arriva il pallone addosso nei parchi sto bene… un po’ di vita!
Ottimo Scianca.Per il resto vergogna .vergogna
Ogni tanto SI ricordino chi amava I bambinj e se bergoglio o I pseudicristiani rileggano Matteo 18
E chi in Italia in passato era per I figli e le natalita altro che