Roma, 24 mar – Mi limito a dire poche parole su un testo che ho trovato un esempio assai istruttivo di quella che chiamo narrazione rassicurante. Si tratta dello scritto introduttivo di Massimo Campanini al volume collettaneo, da lui curato, Le rivolte arabe e l’Islam, uscito nel 2013 per i tipi del Mulino. Lo scritto in questione s’intitola “Le rivolte arabe: verso un nuovo modello politico?”. Già nell’incipit tali rivolte sono considerate, in maniera a dir poco enfatica e con una notevole dose di ottimismo, “un vero spartiacque della storia contemporanea del mondo arabo” (p. 7), anche se ad essere sinceri il passaggio dall’Egitto di Mubarak a quello di al-Sisi non pare proprio si possa collocare sotto il segno di una radicale discontinuità.
In ogni caso, al di là del solito excursus sul ruolo ‘costituente’ e modernizzatore delle élites militari nel mondo arabo, in contrapposizione ai regimi a legittimità dinastica, il punto qualificante dello scritto credo vada individuato nel terzo paragrafo, incredibilmente intitolato “Le rivolte arabe e la moltitudine”. In parole povere, tali rivolte sono interpretate alla luce di uno spinozismo alla Toni Negri, quasi come se categorie del tutto prive di concretezza (alludo ovviamente alla ripresa da parte di Negri della ‘moltitudine’ spinoziana), accompagnate da eruditi rimandi all’indignatio in Spinoza, possano davvero rendere conto di realtà assolutamente specifiche (non solo rispetto all’Occidente ma anche tra loro) come quelle arabe. Per dirne una, significa far rientrare nella medesima, indistinta, ‘moltitudine’ le tribù Houthis yemenite e la borghesia di Aleppo. E tutto questo sostenuto da uno studioso che insegna “Storia dei paesi islamici”…
Nello stesso paragrafo, e siamo al climax della narrazione, ecco come vengono definite le rivolte arabe: spontanee, trasversali, acefale (p. 22). La rassicurazione è servita, pur se Campanini, alla lettera tra parentesi, arriva perlomeno a riconoscere, bontà sua, che “la guerra ‘umanitaria’ in Libia è stata tutt’altro che frutto di un’intenzione innocente da parte di chi l’ha scatenata” (p. 26). Come questo collimi con la presunta spontaneità, l’asserita trasversalità e la vagheggiata acefalità delle rivolte lo lascio alla riflessione del lettore. E infatti, in palese contraddizione con quanto affermato in precedenza, anche Campanini è costretto perlomeno ad ammettere che l’intervento occidentale in Libia ha finito per sollevare “sospetti non infondati di un’origine eterodiretta della rivolta libica” (p. 32). Chiudo col quarto paragrafo dedicato al rapporto tra le ‘rivolte arabe’ e l’Islam. In queste pagine, giusto a titolo d’esempio, sarebbe davvero fatica sprecata cercare chiare indicazioni sulle responsabilità e le collusioni dell’Islam wahhabita nel contesto delle ‘rivolte arabe’. Anzi, in relazione allo scenario siriano, ecco quel che ha da dire Campanini: “i Fratelli Musulmani si sono rivelati molto attivi anche nell’opposizione siriana, rappresentando una componente essenziale del Consiglio nazionale siriano, confermando come le dinamiche contestatarie in atto nei paesi arabi costituiscano un interessante laboratorio di sperimentazione politica” (p. 52). Dunque, il mattatoio siriano derubricato a ‘interessante laboratorio di sperimentazione politica’; un conflitto feroce dissolto in pacifiche ‘dinamiche contestatarie’; fanatici fondamentalisti ricondotti a una anodina ‘opposizione’. Al contrario, l’opera di rassicurazione procede nel garantirci che “l’Islam classico ha elaborato concetti che sono tutt’affatto armonici con i presupposti della democrazia” (pp. 39-40). Per cui, è la conclusione rasserenante, “i principi procedurali della rappresentanza e dell’eleggibilità” sono “riconosciuti dall’Islam” (p. 40). Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.
Giovanni Damiano