“Tante sono le navi da carico che giungono qui trasportando tutti i prodotti da ogni luogo, in ogni stagione, in ogni volgere d’autunno, che l’Vrbs sembra il laboratorio comune della terra”
(Elio Aristide, Orazioni, XIV, 200)
Roma, 4 set – E’ di recente pubblicazione un’opera collettanea, con i contributi dei maggiori storici della religione a livello italiano ed europeo (Claudia Santi, Nicole Belayche, Attilio Mastrocinque, Jorge Rupke…), che presenta l’epopea romana in tutta la sua grandiosa organicità. “Roma, la citta degli dèi”, curato da Ennio Sanzi (dottore di ricerca in Storia religiosa ed allievo di Giancarlo Montesi e di Ugo Bianchi) e da Corinne Bonnet (professoressa di Storia antica all’Université Toulouse – Jean Jaurès), per la collana Studi Superiori di Carocci editore, rappresenta, infatti, un tentativo magistralmente riuscito, secondo noi, di approfondire la religiosità romana in tutte le sue variegate articolazioni, non limitandosi a determinati lassi temporali, non puntando la lente d’ingrandimento sulla sola cultualità privata, facendola assurgere erroneamente ad un’unica e lodevole espressione dello spirito civico. L’idea stessa di Roma e della propria eternità viene assunta non come espressione ontologico – giuridica di un dato popolo, ma come espressione metafisica dell’ecumene universale, in cui la città di Romolo ha svolto il ruolo di omphalos, di centro radiante di una spirituale della Tradizione (eroica) Primordiale. Dal nostro punto di vista, l’opera, nella sua impostazione basale, è in perfetta linea di continuità con le ricerche sull’interpretatio romana curate da Maurizio Bettini (Dèi e uomini nella Citt, Carocci editore, cap. 2, p35ss), circa la mutevolezza formale ma non sostanziale del pantheon di riferimento, e su ciò che John Scheid ha definito le “religioni romane”, scardinando il paradigma vetusto, secondo il quale la religio dei Quiriti fosse immutabile, sempre uguale a se stessa, nello spazio e nel tempo, senza le contaminazioni naturali che caratterizzano ogni forma tradizionale del Sacro: “Non bisogna immaginare i Romani come ‘fedeli’ incrollabili di una religione. Innanzi tutto perché non appartenevano a una religione ma a parecchie: quella della famiglia, quella del quartiere e quella della città. Abituati a praticare questo o quel culto in funzione di questa o quella situazione sociale, i Romani non erano legati nemmeno a una forma di ‘credenza’ unica” (Rito e religione dei Romani, Sestante edizioni, p. 169 – 170).
Non casuale, in questo quadro ermeneutico, è la particolare attenzione riservata alla Magna Mater, alla Cibele di Pessinunte, il cui culto fu introdotto a Roma il 4 aprile 204 a.C., a seguito di una indicazione che i sacerdoti avevano tratto dai Libri Sibillini, per favorirsi il favore divino contro le invasioni cartaginesi; ai culti egizi, diffusi non solo nell’area campana, di Anubis e di Iside (divinità a cui fu legato Giulio Cesare e tutta la dinastia dei Severi); al fondatore del neoplatonismo, Plotino, alle divinità solare e misteriche proveniente dall’Oriente come Mithra. Roma, pertanto, come ideale universale ha potuto eternizzarsi diventando non la patria di un popolo specifico, ma la Patria in terra dei Numi sovra mondani, tramite cui la Luce della Tradizione ha potuto resistere alla decadenza per un ciclo intero. Nel testo, a testimonianza di ciò, è assurta a reale simbolo del valore trascendente della Romanità: Vittorio Massa, infatti, dedica un profondissimo capitolo a Vettio Agorio Pretestato (p. 63ss), insieme a Simmaco, ultimo rappresentante dell’aristocrazia senatoria pagana che fu capace di opporsi alla marea montante del Cristianesimo. La sintesi sacrale che Roma compie nel suo millennio di vita, tra Mos Maiorum, Platonismo e Misteriosofia, in Pretestato, personaggio centrale di quella summa sapienziale rappresentata dai Saturnalia di Macrobio, si esplicita in tutta la aurea consapevolezza. In una base di marmo ritrovata lungo il clivus Capitolinus nel 1750 vi si ritrova tutto il suo eloquente cursus honorum e forse la rappresentazione più adamantina di ciò che fu realmente il miracolo dell’Vrbe: “ Agli dèi Mani, Vettio Agorio Pretestato, augure, pontefice di Vesta, pontefice di Sol, quindecemviro, curiale di Hercules, iniziato a Libere ierofante eleusino, neocoro, tauroboliato, Pater Patruum (il grado più alto della gerarchica iniziatica mithriaca)” (p. 69). In merito, la visione secondo cui Pretestato fosse il rappresentante di un sincretismo tardo – antico e secondo cui il diffondersi dei culti misterici fosse il segno della decadenza della prisca religio, precursori della nuova religione, viene rigettata come una pessima interpretazione teologica e cristianocentrica, che non coglie la continuità sapienziale di un Sapere che si perpetua che dai primordi riaffiora al fine del ciclo, come un serpente uroborico: il Massa evidenzia la continuità e l’identità religiosa romana, tanto da definire la carriere di Pretestato “specchio della religione tradizionale romana”. Un altro capitolo che vogliamo segnalare ai lettori del Primato, è quello di Francesca Prescendi sulla tauroctonia mitriaca (p. 281ss), in cui ottimamente vengono evidenziati gli elementi comuni tra il sacrificio misterico e quello della religione tradizionale romana:”Bisogna sapere innanzitutto che nonostante l’origine straniera di Mithra, i rilievi che rappresentano la tauroctonia e gli altri espisodi della sua vita sono una produzione della cultura romana a partire dell’epoca imperiale. Essi appaiono nello stesso periodo e contesto dei rilievi rappresentanti il sacrificio romano tradiziozionale” (p. 288). A parte la dimensione sacrificale, a parte la comunanza evidente che si può riferire tra il culto primordiale ed agreste del Sol Indiges e quello del Sol Invictus, la Prescendi, a nostro giudizio, coglie in pieno il vero senso della profonda romanità del rito iniziatico di Mithra. Esso è celato, non solo nella ritualità, non solo nel simbolismo, non solo nel substrato filosofico e platonico (così come evidenziato da Porfirio, per esempio), ma nell’anima stessa che accomuna i Quiriti e gli iniziati a Mithra, cioè la sfera trasfigurante dell’eroe:”…abbiamo mostrato come il culto di Mithra si sia impiantato nell’Impero romano costruendosi come un gioco di specchi rispetto al sacrificio romano e alle immagini rappresentanti il culto della Vittoria” (p. 295).
Importante risulta essere in merito l’approfondimento di Attilio Mastrocinque sulla presenza di divinità romane e straniere nelle gemme e nei papiri magici (p. 379), in cui un complesso processo di omologazione e di sintesi venne operato tra divinità greco-romane e riferimenti di chiara origine egizio-caldaica, con un solido fondamento filosofico di natura platonica. Ma quale il rapporto dei Romani con la Magia? Ma soprattutto con quale Magia? Il testo che presentiamo, in merito, finalmente pone fine a volute e sospette confusioni circa il rigetto romano verso gli incantamenta o i carmina. Sia nelle riflessioni del Mastrocinque (p. 380) sia nello specifico capitolo dedicato di Ennio Sanzi “Magia contro Mos Maiorum” (p. 355ss) è chiarito sufficientemente come la legge delle XXII Tavole, i provvedimenti legislativi di Silla e la narrazione di Plinio il Vecchio nel XXX libro della sua Storia Naturale fossero rivolti contro i “mala carmina”, contro i “veneficia” (gli avvelenamenti), cioè contro una bassa magia, degradata da astrologi e fattucchieri, caratterizzata da pratiche di chiara origine stregonica, essendo condannata “non tanto le azioni in sé quanto le conseguenze da essa generate” (p. 376). A tale doverosa ostilità della giurisprudenza romana si contrappose l’ordine, la pietas nei confronti degli dèi, la centralità del Mos Maiorum che attiva una propensione al Sacro completamente opposta, cioè rivolta a respingere un rito magico ostile e per la salute dell’intera comunità. Qui non si tratta di ricadere nell’erronea dicotomia tra nefasto esoterismo e salubre religiosità, ma di comprendere, ancora più profondamente, come la vis interna di un’azione diviene caratterizzante l’azione stessa, indi riducendola alla stregoneria o, al contrario, sublimandola a ciò che il Mos Maiorum è irriducibilmente connesso, cioè alla Teurgia (quale opera Divina) ed all’Alta Magia e quanto scritto nel testo circa i prodigi legati al culto della Triade Capitolina e nello specifico a Iuppiter Optimus Maximus rende tutto al quanto eloquente e cristallino. Il tutto, mentre leggevamo il testo, ci ha fatto ritornare alla mente due riflessioni di Evola: la prima contenuta in Rivola contro il mondo moderno (nota 49, capitolo 9, parte seconda), in cui ben era distinta una magia superiore in cui le figure del patrizio romano e del teurgo erano inscindibilmente collegate; la seconda contenuta in Maschera e Volto dello spiritualismo contemporaneo (capitolo X, Correnti iniziatiche e “Alta Magia”) e che ci riporta alle riflessioni già enucleate su Mithra e la dimensione della Vittoria:”Passando al secondo possibile senso della magia, abbiamo detto che essa si definisce essenzialmente con un atteggiamento dello spirito. Esprime una forma di integrazione sovranormale della personalità nella quale l’elemento virile e attivo sta in primo piano…ha una certa relazione anche con la teurgia antica e con quella magia che nei precedenti secoli fu intesa specificatamente come Magia Divina, in opposto alla Magia Naturale e anche Celeste”.
In conclusione, è essenziale rammentare il valore che gli stessi curatori hanno assegnato al loro prezioso lavoro editoriale, quale adempimento alla valorizzazione della missione di Roma, alla perennità della sua centralità spirituale e metafisica, la Res publica quale Vrbs, quale Orbis, cioè autentico centro del mondo (p. 395). Quello presentato, anche se con notevoli spunti di natura accademia e specialistica, è un testo che reputiamo possa essere un valido strumento pedagogico per chi vive la Romanità nel quotidiano e nella militanza di ogni giorno, una Romanità scevra da ogni visione unilaterale, da ogni stantio dogma tradizionalistico, riconsegnata alla dimensione dell’Eterno.
Luca Valentini