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“Aspettiamo che un uomo partorisca?”. I Romani e le unioni gay

by Adriano Scianca
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ermafrodito-dormiente-140298Roma, 12 feb – Se il proverbiale esperimento mentale di immaginare un marziano che sbarchi fra noi e osservi le storture della nostra società è spesso impietoso, lo stesso gioco replicato con un ipotetico antico Romano che abbia viaggiato nel tempo per ritrovarsi in mezzo a noi suscita imbarazzo ai limiti del seppuku. Facciamo lo sforzo di immaginarcelo, questo patrizio romano che legge gli editoriali sul ddl Cirinnà in cui si mescolano in tutta serietà le esigenze del diritto e quelle dei sentimenti. Ma immaginiamocelo anche in mezzo alla folla, pur generosa, del Family day, mentre ascolta le religiosissime disquisizioni su cosa è morale e cosa no sotto le lenzuola. Un bel rompicapo, per il nostro viaggiatore nel tempo, molto più a suo agio con un modello di famiglia e di società che riesce a essere allo stesso tempo più conservatore e più libertario di tutto ciò che oggi viene partorito da entrambi gli schieramenti in campo.

Cosa avrebbero pensato, quindi, i Romani dei matrimoni gay? Di sicuro non avrebbero ragionato sul tasso di “amore” fra gli aspiranti sposi, dato che il sentimento era qualcosa di irrilevante anche nei matrimoni normali. Essendo la famiglia solo un dispositivo per assicurare la discendenza legittima e poi per allevarla, la necessità di regolare giuridicamente un’unione infeconda non sarebbe stata capita. Scrive, non a caso, Rosella Frasca: “Polemiche come quelle assai vive in questi giorni, circa la concessione di un diritto a una coppia gay di metter su famiglia, non solo non sarebbero sorte, ma non si sarebbero neanche comprese”. Sentimenti, desideri, preferenze, perversioni erano per i Romani affare totalmente privato. È per questo che le norme erano tanto stringenti circa le questioni relative alla discendenza quanto “aperte” in relazione alle abitudini private. Secondo Florence Dupont, a Roma “tutto è permesso, senza distinzione di sesso o di età, anche se con due riserve: l’abuso di piaceri sessuali è, come tutti gli altri abusi, un crimine morale, e poi conviene parlarne il meno possibile e non fare della sessualità un’arte, come i Greci, perché si tratta in quel caso di un’autentica perversione. Quanto al modo pratico in cui si realizza l’amore, non c’è comportamento permesso ed altri vietati; l’importante non è l’atto in sé ma ciò che rivela dell’uomo. Il grande insulto a Roma è trattare qualcuno da ‘effeminato’”. Ovvero impudicus, termine che non indica in origine uno “sporcaccione”, ma un uomo che ha abdicato alla propria virilità.

Ciò che ripugna la mentalità romana è la passività, nella vita come a letto. Marco Aurelio si compiace di aver resistito all’attrazione per il domestico Teodoto e per la domestica Benedica, indifferentemente. “Quella società – raccontava Paul Veyne – non perdeva tempo a chiedersi se le persone fossero omosessuali o no; in compenso, prestava un’attenzione smisurata a minimi dettagli di toletta, di pronuncia, di gesti, di andatura, per colpire con il suo disprezzo quelli che tradivano una mancanza di virilità, quali che fossero i loro gusti sessuali”. Un bel cambio di prospettiva: oggi ci è concesso di essere eterosessuali, a patto che non siamo virili; a Roma si poteva anche essere omosessuali, bastava essere virili. Anche se in realtà era la categoria sociologica in sé dell’omosessualità che mancava. A Roma esistevano solo le passioni e lo stile. Non c’erano passioni buone o cattive, c’erano solo individui che non perdevano lo stile di fronte allo slancio passionale e altri che invece compivano tale “peccato”, l’unico ammesso nel sistema di pensiero romano.

Va detto, tuttavia, che da un certo punto in poi, dei tentativi, marginali e provocatori, di dar luogo a dei matrimoni omosessuali, con tutti i crismi anche rituali del caso, si videro persino a Roma. Svetonio, fonte peraltro sospetta perché duramente avversa a Nerone, racconta come l’imperatore abbia sposato con cerimonia pubblica e “tradizionale”, un ragazzo di nome Sporo. Non solo: dopo aver fatto da marito a Sporo, Nerone avrebbe anche fatto da moglie a Doriforo. Non sappiamo dove finisca la cronaca e dove inizi la calunnia. Quel che conta, tuttavia, è che simili episodi, che pure vi furono, non erano altro che eccentricità decadenti. In ogni caso, su di esse non potremmo dir meglio di quanto fece Marziale: “Il barbuto Callistrato ha sposato l’impettito Afro con lo stesso rito con cui una vergine prende marito. Hanno brillato le fiaccole, i veli nuziali hanno coperto i loro volti e non sono mancati neppure, Talasso, i canti in loro onore. È stata anche stabilita la dote. Ancora non ti sembra, Roma, di averne abbastanza? Aspetti per caso che un uomo anche partorisca?”.

Adriano Scianca

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