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“Sa Paradura”: il dono dei pastori sardi ai terremotati rievoca una tradizione antichissima

by La Redazione
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pastori pecore donate terremotatiRoma, 3  apr – “Sa paradura”, così definiscono i sardi l’aiuto portato a chi ha perso tutto. Proprio nel nome di questa antica tradizione, i pastori sardi hanno donato mille pecore (qui il video dell’emozionante consegna avvenuta a Cascia) ai pastori umbri, in segno di solidarietà e sostegno a quelle popolazioni colpite dal terribile terremoto di alcuni mesi fa. Un gesto concreto che vale molto di più delle parole dei politici italiani, che, come tutti sanno, sono bravissimi a promettere, ma scarsamente abili nel mantenere poi la parola data. Ma un gesto che soprattutto ha un alto valore simbolico. Tito Livio racconta, nella Storia di Roma, della cesta con Romolo e Remo abbandonata sulla riva del fiume: “È ancora viva la tradizione secondo cui, dopo che per la scarsità d’acqua il cesto con i gemelli rimase all’asciutto, una lupa assetata discesa dalle montagne vicine, indirizzò i suoi passi verso i vagiti dei neonati e offrì loro le sue mammelle, mansueta al punto che un pastore del regio gregge (dicono che si chiamasse Faustolo) la trovò mentre li lambiva con la lingua; egli li portò alle stalle e li affidò a sua moglie Larenzia, perché li allevasse. Alcuni pensano che i pastori chiamassero “lupa” Laurenzia perché si prostituiva e che di qui sarebbe derivato lo spunto per la straordinaria leggenda. Così generati e così allevati, raggiunta che ebbero la giovinezza, svolgevano alacremente il loro lavoro nelle stalle e presso il gregge e amavano andare a caccia nei boschi. Irrobustiti nel corpo e nello spirito, non si lamentavano ad affrontare le fiere, ma assalivano anche i briganti carichi di preda, dividendo poi il bottino fra i pastori. Con questi spartivano lavoro e svago e ogni giorno il gruppo dei giovani si faceva più numeroso”.

Così un pastore contribuisce a salvare i gemelli che poi crescono prendendosi cura del gregge del padre. A rinsaldare questo legame, nel giorno della fondazione di Roma, si festeggiava la dea Pales, protettrice delle greggi. Con questi presupposti, vogliamo spingerci al di là di tutte le sovrastrutture mentali o culturali, che hanno trasformato la figura del pastore in un essere primitivo, bruto e alienato. Al giorno d’oggi, sono soprattutto stranieri coloro che svolgono questo antico mestiere, mentre alla nostra gioventù viene riservato il “paradiso dei videogiochi e dei lavori da scrivania”. Nonostante ciò, chi ha avuto mai la fortuna di incontrare qualche vecchio pastore in montagna, ricorderà sicuramente i suoni, incomprensibili e primordiali, ma efficaci, con i quali i pastori si relazionano con il proprio gregge: “Vipperaaa!” , oppure “ leee fassaaaa”. Il pastore infatti vive completamente immerso nella natura per lungo tempo, ne conosce ogni suono o rumore, sa comprendere dal vento e dalle nuvole il tempo che sarà, dai profumi presenti nell’aria avverte l’avvicinarsi di altri animali. Il pastore vive sempre in tensione, come dice il proverbio popolare, dorme con un occhio aperto: sa bene che l’assopimento potrebbe portarlo a non accorgersi dei pericoli imminenti. Il pastore è saggio, ha sempre con sé un bastone, che non gli serve per appoggiarcisi sopra stancamente, come nella rappresentazione di thanatos, ma è utile per dirigere il gregge (ripreso poi dal bastone pastorale dei vescovi) o anche come arma, per respingere attacchi improvvisi. Il pastore è attento a preservare l’ambiente che lo circonda, perché sa che grazie alla natura incontaminata il suo gregge può sopravvivere.

Il pastore disponeva di una importante sensibilità: nelle preghiere a Pale egli chiedeva perdono se avesse violato o tagliato alberi sacri, se le sue pecore avessero brucato sulle tombe, se si fosse rifugiato in templi per sfuggire al maltempo, se il gregge avesse intorbidato acque di sorgente, se con la sua presenza avesse obbligato esseri come ninfe e satiri a fuggire. Il pastore, infine, sa bene quanto è duro riportare a casa il gregge intero e quanta fatica costi godere dei meravigliosi prodotti dell’allevamento, dal latte alla lana per finire con la carne. Quindi, ancora ai giorni nostri, i pastori riescono a dare una dura lezione ai politicanti da strapazzo, riscoprendo la solidarietà che contraddistingue le nostre genti e che vorrebbe essere sostituita dalle etichette imposteci nel dopoguerra. Ma soprattutto ci indicano la necessità di recuperare le qualità che contraddistinguevano i pastori, necessarie per una autentica rifondazione della nostra Patria.

Marzio Boni

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3 comments

rino 3 Aprile 2017 - 3:22

Complimenti: emozionante!

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savino 4 Aprile 2017 - 1:15

Un gesto tangibile di grande solidarietà che mi ha commosso. Complimenti.

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Paolo 11 Aprile 2017 - 3:44

Ciò che mi piacerebbe è che in un futuro non lontano, smettessimo di mangiare la carne degli animali, ma ci alimentassimo dei loro prodotti come il latte, il formaggio, il burro, le uova ecc. Le proteine che assumiamo dalla carne si possono sostituire con quelli che ho esposto prima (latte ecc.) e con i legumi, frutta secca e tanto altro, tenendo conto che ne consumiamo anche molto più del necessario. Una mattina ho visto un camion pieno di agnellini che belavano disperati…li portavano via dalle madri per mandarli al macello. Da quel giorno amo troppo le pecorelle per veder fare loro quella fine orrenda…essere sgozzate…è così che le ammazzano per la nostra tavola. So che la natura non è tanto sensibile quando si tratta della vita degli animali, ma noi della carne possiamo farne a meno, è questo il punto; se fosse necessario per vivere capirei…ma non lo è. Lasciamo che lottino fra loro per la sopravvivenza, noi sopravviveremo lo stesso…e molto bene direi. Il nostro vero male sono i nostri simili, e coi tempi che corriamo, questo dato di fatto è più scontato.

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