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T-shirt femministe prodotte da schiave: l’uguaglianza di genere secondo le Spice Girls

by Ilaria Paoletti
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Londra, 23 gen – Il quotidiano inglese The Guardian “sbugiarda” le paladine del girl power e del neofemminismo in tinte pastello, le Spice Girls.

Le magliette facenti parte del merchandising della band britannica e istoriate con slogan per la parità di genere sarebbero prodotte da operaie del Bangladesh ridotte in condizioni molto vicine alla schiavitù.

Secondo l’inchiesta condotta dal  Guardian, infatti, nelle fabbriche in cui queste t-shirt vengono prodotte le condizioni delle lavoratrici sono disumane e questo contraddice appieno la loro iniziativa “umanitaria”: i capi con lo slogan “#IwannabeaSpicegirl” vengono venduti a 19 sterline al pezzo. Il ricavato, paradosso dei paradossi, dovrebbe finire ad un’associazione no profit dedita proprio a iniziative sull’uguaglianza per le donne.

Forse per “uguaglianza” le quattro Spice (non più tanto) “girls” intendono solo quella garantita nei Paesi occidentali: in Bangladesh le donne che lavorano “per loro” guadagnano poco meno di 40 centesimi l’ora e sono sfruttate fino al midollo, con massacranti turni di 16 ore al giorno.

La fabbrica in cui i prodotti a “marchio” femminista sono confezionati si chiama Interstoff Apparels e ha sede Gazipur, a tre ore dalla capitale Dacca.
Le operaie che producono le magliette atte a sensibilizzare l’equità tra i generi vengono qui discriminate rispetto ai colleghi di sesso maschile, costrette a lavorare anche se in avanzato stato di gravidanza, offese e maltrattate per la miseria di circa 93 euro al mese.

L’iniziativa “umanitaria” delle quattro reduci degli anni novanta (esclusa la signora Beckham, che si è ben guardata dal partecipare all’ennesima reunion nostalgica) voleva promuovere un messaggio “in rosa” sulla parità dei sessi e, sebbene all’inizio sia stata ovviamente condivisa a suon di selfie da altre “star” di pari grandezza del mondo del pop pro movimenti Lgbt et cetera, adesso sembrerebbe essersi tramutata in un boomerang per l’immagine della band e loro il ritorno sulle scene.
Forse era meglio limitarsi a canti e balli?

Ilaria Paoletti

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