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True Detective 2: la storia della nuova sigla di apertura

by Davide Trovato
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true-detective-season-2-poster-colin-farrellMilano, 24 giu – Terminata l’attesa lunedì, con la messa in onda del primo episodio della seconda stagione di True Detective, abbiamo avuto risposta ai primi e basici interrogativi: chi sono i protagonisti, chi il regista, dov’è ambientata la serie. Eppure al termine dello show rimane fissa, inevasa nella testa, una domanda: chi canta la sigla d’apertura?

La risposta è semplice ed al tempo stesso elettrizzante: si tratta Leonard Cohen. Esatto, quella minimale, greve, roca e dannatamente orecchiabile canzone che accompagna le inconfondibili immagini di apertura come nebbia pesante è Nevermind, canzone tratta dall’ultimo album dell’artista canadese, Popular Promblems.

Il “pezzo” nasce come poema breve, pubblicato per la prima volta nel 2005 sui Leonard Cohen Files, fanzine in cui il musicista condivide coi fan i lavori in corso. Un anno dopo Never Mind – il titolo del poema è staccato, mentre quello della canzone è un tutt’uno, cosa di certo voluta da uno scrittore come Cohen, così attento alle “cinquanta sfumature di significato” – compare nella sua raccolta di poesie, Book of Longing. La sua prima in oltre trenta anni di carriera. Seguirà poi la musica ed infine l’album.

In superficie Nevermind suona terribilmente fredda, flirtando con il nichilismo e le teorie sull’insensatezza dell’esistenza tipiche della serie. “There’s truth that lives/ and truth that dies/ I don’t know which/ so nevermind” (“C’è verità che vive/ e verità che muore/ io non so quale/ ma non importa”, ndr). L’avesse cantata Mattew “Rust” McConaughey, sarebbe calzata a pennello. Ma presa nel contesto della vita e della carriera dell’autore di Halleluja, la canzone diventa più “complessa”: Book of Longing in particolare è stata la prima opera pubblicata da Cohen dopo essere diventato un monaco buddista – trascorse infatti cinque anni nella seconda metà dei ’90 in isolamento, in un monastero fuori Los Angeles. Alla luce di quell’esperienza, il ritornello appare meno come una dichiarazione di nichilismo e più come un attestato di “non attaccamento zen” alla vita materiale: “I had to leave/ my life behind/ I had a name/ but nevermind” (“Ho dovuto lasciare/ la mia vita dietro di me/ avevo un nome/ ma non importa”, ndr). Nel monastero Cohen prese il nome di Jikan (il silenzioso), soprannome piuttosto ironico per un famoso cantante.

Come i fan sapranno, la serie punta molto sui titoli d’apertura, definendo in quei pochi secondi di anticipazione il tono che avranno le immagini a seguire. E come tutti avranno avuto modo di vedere ed ascoltare, a questo giro si cambia scena: non ci sono più i killing fields che conducono a Carcosa, niente più fanatismo pseudo-cristiano, basta con l’attraversare il bayou come scorrendo le parole di un romanzo di Lansdale. E quindi basta con la Handsome Family che canta l’oscura e sinuosa Far from any road.

Qui c’è la California. Vinci per la precisione. Città meccanica, tutta catrame e ciminiere, a pompare sangue infetto. Il Dio cristiano è diventato new-age. Pizzolatto a sfidare l’hard boiled con personaggi maledetti. Su tutti Colin Farrell, un attore irlandese che interpreta un poliziotto di origini italiane. Con quel cognome, Velcoro, che sembra di derivazione fumettistica. E quello che pare di vedere è proprio un Sin City in stop-motion. Qui c’è la California. C’è il libro occidentale dei morti (The Western Book of Dead – titolo della prima puntata, ndr). E qui, c’è Leonard Cohen: the story’s told, with facts and lies, I had a name, but nevermind.

Davide Trovato

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