Roma, 16 apr – Il mondo di oggi sembra essere sempre più distante da qualunque altro tipo di dimensione che non appartenga alla mera materialità o che non si inserisca all’interno dei meccanismi di mercato. Il mito e il sacro, categorie ancestrali attraverso le quali la nostra millenaria civiltà si è sempre espressa e rappresentata, sembrano ormai relitti di un passato oscuro e avvolto da ignoranza e superstizione.
Mito e futuro: due poli troppo distanti?
Questo tipo di narrazione delinea gli attuali sviluppi tecno-scientifici come esclusivi e totalmente iscritti nella stessa concezione liberale e iper-capitalista alla quale è soggetta la nostra società democratica. Da qui deriva anche la sempre più costante messa in guardia, oltre che vera e propria fobia, per ogni superamento o conquista nel campo tecnologico che va anche solo minimamente ad intaccare fantomatici valori o dogmi universali. Ma è davvero così? Algoritmi, Intelligenze artificiali, realtà virtuale, ibridazione uomo-macchina e simili sono solamente ulteriori armi del nichilismo o invece c’è dell’altro?
William Gibson tra divinità e flusso di dati
Chi prima di noi si è posto gli stessi quesiti è stato William Gibson, scrittore americano di culto per tutti gli amanti della science-fiction e conosciuto soprattutto per essere tra i “padri fondatori” del filone cyberpunk. La sua risposta ai dilemmi della tecnologia si trova tra le pagine dei romanzi appartenenti ad una delle saghe più fortunate uscite dalla penna di Conway. La Trilogia dello Sprawl (Neuromancer, Count Zero e Mona Lisa Overdrive) pubblicata tra il 1984 e 1988. In questo universo narrativo tecnocratico e senza legge, governato solamente da criminalità organizzata e grandi corporazioni commerciali, i “cowboy della tastiera” trascorrono la maggior parte della loro esistenza tra realtà virtuale e costrutti cibernetici. Questo cyberspazio, chiamato anche “Matrice”, che avrà tanta fortuna nella letteratura successiva anticipando alcuni risvolti moderni in materia di multiverso e realtà aumentata. Il cyberspazio di Gibson è una dimensione liminale e caotica al limite del rituale dove questi hacker si muovono più come iniziati e sciamani digitali che come programmatori o tecnici. Nel mondo dello Sprawl la tecno-scienza ha assunto ormai tratti mitici e incarnati, simbolici e magici: il cyberspazio si popola così non solo di dati ma anche di divinità. Queste non sono altro che flusso di informazioni, linguaggio computazionale e algoritmi dal sapore mistico. Gibson, in Count Zero, racconta della proliferazione di strane entità vudù, forze libere nella rete che si auto-organizzano come coscienze.
“Quando Beauvoir o io ti parliamo del loa e dei suoi cavalli, […], devi pensare che parliamo due lingue contemporaneamente. […] Magari usiamo parole diverse ma è sempre tecnica.
Queste divinità non sono semplicemente dei programmi IA ma vere e proprie entità emergenti, interfacce simboliche che aprono all’avvento del sacro nei circuiti della Matrice. Legba è appunto l’accesso all’irrazionalità nel cuore della tecnica, il ponte tra codice e simbolo, tra digitale e spirituale, tra scienza e magia. I cosiddetti loa (detti anche Iwa), nella tradizione vudù svolgerebbero il ruolo di intermediazione fra il mondo sottile e l’uomo, infatti, nella Senso/Rete di Gibson, queste forze appaiono ad hacker “stregoni” in grado di canalizzarle entrando in contatto con la struttura del cyberspazio.
“Gli alberi sono consacrati a diversi loa. Quello è per Ougou, Ougou Feray, il dio della guerra”.
I loa non sono degli “esseri” nel senso tradizionale me forze, modalità di relazione, pattern energetici. Sono sistemi e simboli viventi che si manifestano quando l’umanità riesce a sviluppare una sensibilità mitica negli interminabili luoghi della rete. Papa Legba è infatti chiamato dagli stregoni-hacker come “padrone delle strade e dei sentieri, signore della comunicazione.” Il mondo oscuro e incontrollabile di Gibson è forse uno degli esempi più lampanti dell’impossibilità di ridurre la tecnologia alle logiche liberali e mercantilistiche.
Verso una mitologia quantica e post-tecnologica
L’accelerazione tecnologica non può fare altro che lanciare la scienza oltre sé stessa fino a toccare l’ignoto. Proprio in questo spazio abissale si compie il ritorno del sacro e del mito. Come narrato dalla fantascienza di Gibson, la tecnologia va oltre il materiale, il codice diventa qualcosa di più di una sequenza incarnando una forza viva e trasformativa. Una magia tecnologica con richiami a conoscenze esoteriche. Non è un caso che molte di quelle scienze “eretiche”, come avrebbe detto Feyerabend, aprono oggi a paradigmi epistemologici alternativi in netto contrasto con la razionalità lineare. Lo vediamo, ad esempio, nella fisica quantistica dove la realtà probabilistica, stocastica, caotica e “invisibile” si presta al mito e letture mistiche del reale. La tecnologia si mostra allora come un possibile veicolo per la resurrezione di antichi simboli che non può essere separato dal mitico e dal magico. In una prospettiva archeofuturista dove il tecnologico si fonde con l’arcaico, queste divinità post-tecnologiche agiscono come veri e propri operatori quantici in grado di incarnare forze ancestrali nei circuiti. Affermare questa insurrezione simbolica, la stessa rivendicata in chiave estetico-politica da Hakim Bey, significa quindi mostrare la necessità di nuove forme di sapere, nuovi paradigmi dove l’informazione è ontologia e il reale è costruzione immaginifica.
Renato Vanacore