Roma, 23 gen – Il 22 gennaio 1886 nasceva a Graz un personaggio enigmatico, misterioso, la cui brevissima vita sarebbe diventata da subito un mito. Non tanto perché ammantata di mistero e leggende ma proprio perché questo personaggio fu capace di incarnare e “solidificare” un mito ancestrale, lanciando così il breve istante del corso della sua vita in una dimensione di eternità. Parliamo del barone Roman Fëdorovič Ungern von Sternberg, il cosiddetto Barone Pazzo, il Barone Nero, il Dio della Guerra o più semplicemente Ungern Khan. Nato da una famiglia della nobiltà tedesca del Baltico, che a quell’epoca apparteneva all’Impero Russo, fu introdotto fin da giovanissimo alla corte della nobiltà dello Zar prima di essere ammesso alla scuola militare Pavlosk di San Pietroburgo. Più volte segnalato e rimproverato dai suoi superiori per la totale insofferenza agli ordini e alla disciplina ma anche al rapporto con i suoi commilitoni, fu nella Prima Guerra Mondiale che Ungern iniziò a far emergere le sue caratteristiche.
Il nobile baltico fu uno dei diecimila soldati dell’esercito imperiale – appena uno su quindici di quanti erano partiti – a rientrare in Russia. I testimoni delle battaglie a cui aveva partecipato parlano di un coraggio quasi suicida che spingeva il giovane ufficiale a buttarsi in prima linea nelle cariche e ad accettare le missioni più difficili, riuscendo con un carisma quasi sovrannaturale a farsi seguire con assoluta fedeltà dai suoi soldati. Fu sempre nella Grande Guerra che Ungern sviluppò un amore mistico per la guerra, arrivando a dire che “la vita è il risultato della guerra, la società è solo uno strumento della guerra. Rifiutare la guerra vuol dire mutilare la vita del proprio stile epico”. Quando nel 1917 iniziò la rivoluzione bolscevica, iniziò anche il mito di Ungern-Khan. Dapprima alleato contro i rossi con l’ataman cosacco Grigorij Michajlovič Semënov – che poi avrebbe creato lo Stato Cosacco della Transbaikalia appoggiato dai giapponesi e probabilmente proprio dall’ala rivoluzionario-panasiatica nipponica del Kokuryukai – Ungern ben presto prese la strada in solitario, rifiutando anche l’autorità del comandante delle truppe bianche antibolsceviche Kolčak.
La lotta antibolscevica infatti per lui non aveva lo scopo di restaurare una monarchia decaduta, né quella di un baluardo o un freno al corso della storia. Ungern voleva invece compiere una vera e propria contro-rivoluzione, che avrebbe dovuto portare il mondo in tutt’altra direzione. Fedele a una corrente tantrica del buddhismo mongolo, Ungern raccolse un nutrito gruppo di volontari siberiani, mongoli, tibetani che costituirono la cosiddetta Divisione Asiatica di Cavalleria e – forse appoggiato anche da una piccola divisione giapponese guidata dal maggiore Suzuki – nel 1921 assediò Urga, la capitale della Mongolia da due anni occupata dall’esercito repubblicano cinese. Nel gennaio di quell’anno la Divisione Asiatica guidata da Ungern liberò la città e rimise sul trono il Bogdo Khan, VIII Hutuktu o “sacro signore venerabile”, capo spirituale del lamaismo mongolo e terza carica del buddhismo dietro il Dalai Lama e il Panchen Lama in quanto incarnazione e proiezione della potenza fisica e guerriera del Buddha. Proprio dalla città sacra di Urga, divenuto dittatore della Mongolia e dichiaratosi erede di Gengis Khan dopo che il Hutuktu gli ebbe consegnato l’anello col sigillo appartenuto proprio al grande imperatore mongolo, Ungern Khan tentò di far partire la propria rivoluzione. Il suo sogno di creare una “Grande Mongolia” che avrebbe dovuto comprendere Mongolia Interna ed Esterna, Tibet e tutta la terra tra il lago Baikal e lo Hsin-Kiang non era solo un progetto territoriale e politico ma qualcosa di molto più ampio e profondo. L’obiettivo dichiarato di Ungern-Khan era quello di creare un centro che avrebbe dovuto ricreare sì un impero pan-asiatico ma soprattutto un polo spirituale che avrebbe dovuto opporsi alla nuova marea livellante, omologante e abbattitrice di ogni verticalità, una sovversione che sembrava mossa da forze infere tese a sradicare ogni sacralità. Difficile trovare parole più adatte di quelle del professor Pio Filippani Ronconi per descrivere le forze contro cui combatté Ungern Khan:
Erano tempi terribili in cui, piú che dal potere delle armi, gli eventi sembravano determinati da forze promananti da una sorta di magia infera. Coloro che furono testimoni degli sconvolgimenti determinati dalla Rivoluzione di Ottobre ricordano la spaventevole automaticità medianica con cui le “forze rivoluzionarie” demolivano le strutture della vita civile cosiddetta “borghese” e le vestigia dell’ordine antico. Le masse si coagulavano in quegli strati della società in cui maggiormente era assente il principio dell’“Io” autocosciente […]. Ai rivoluzionari non si scampava: mossa come da un’ispirazione demoniaca, la “giustizia del popolo” colpiva infallantemente i nemici della Rivoluzione un momento prima che si muovessero. Il Terrore era guidato da una occulta saggezza che nulla aveva a che fare con la brillante intelligenza di coloro che lo avevano scatenato e pensavano di dirigerlo: una saggezza che realmente promanava dall’elemento preindividuale della “massa”.[1]
Ma per Ungern Khan l’opposizione a questa forza non poteva essere solo una reazione o una retromarcia verso un passato ricordato con nostalgia e in cui comunque il generale baltico non si riconosceva, bensì una nuova creazione, una nuova opera di fondazione che avrebbe dovuto realizzare sulla terra un Ordine e una Gerarchia celesti che avrebbero trasformato un regno terrestre in un mandala ordinato come uno spazio sacro, trasformando un singolo momento in un istante eterno che avrebbe potuto permettere allo Hutuktu, Bodhisattva incarnato, di far partire la vasta liberazione spirituale del mondo e aprire le porte verso ciò che è inaccessibile: Agarthi, la mitica terra “sotterranea” della mitologia del buddhismo mongolo, un regno da cui il Re del Mondo, divino legislatore cosmico, perpetra la Tradizione Iperborea, un regno inaccessibile da cui nell’ora più oscura giungerebbe il Buddha Maitreya, l’ultima incarnazione del Buddha e il cui nome forse non a caso ricorda il Mithra zoroastriano, per riportare la luce della spiritualità e la rettificazione eroico-guerriera e virile in un mondo oramai livellato, desertificato e orizzontale. Legando indissolubilmente la propria vita col mito di Agarthi e del Re del Mondo, Ungern Khan – dichiarato dall’allora Dalai Lama reincarnazione di Mahakala, lo Shiva buddhista, il “Grande Nero” a sei braccia, incoronato da una collana a cinque teschi che con la sua mannaia protegge i segreti più sacri simboleggiati dal gioiello che porta sul ventre – ha di fatto reso immortale tanto la sua figura quanto il mito legato alla sua vita e alla sua missione.
Anche gli ultimi giorni della sua vita mortale, che raccontano di un viaggio solitario che lo avrebbe portato, irrazionalmente, verso ovest e quindi in mano al nemico bolscevico invece che verso est dove avrebbe potuto trovare la salvezza, non sono altro che la scelta consapevole di vivere un mito e un sacrificio volontario, un viaggio verso le terre del tramonto del Sole, come verso le mitiche Terre d’Occidente dell’Avalon arturiano dove il Re dormiente attende di essere risvegliato. Fucilato il 15 settembre del 1921 da un “tribunale del popolo”, Ungern Khan entrò di diritto nell’eternità del mito. Grazie a lui la mitica Agarthi e il Re del Mondo sono sì celati e dormienti come il Saturno romano ma hanno potuto echeggiare per tutto il mondo, in attesa che la Volontà di uomini retti e centrati possa accordarsi alla loro frequenza e aprire le loro porte.
Carlomanno Adinolfi
[1] da “Un tempo, un destino”, in «Letteratura – Tradizione», II, 9
14 comments
che uomoo…..
A volte penso che Lattanzio non fosse così isolato nella sua lisergica esaltazione di tutto ciò che di abbietto esiste nella storia a patto che non fosse liberale.
Onore al Barone per sempre.
Era tra i protagonisti di “Corto Maltese – corte sconta detta arcana”
Esiste un qualche libro inerente questo grande uomo? grazie.
Secondo me il migliore sull’argomento è:
Bestie,uomini, dei
Di Ferdinand A. Ossendowski
Edizioni Mediterranee
Jean
Anche “Il Dio della Guerra” di Jean Mabire, edizioni AR e “Il Signore Terribile” di Frugis, sempre Ar
Articolo bellissimo e interessantissimo, non sapevo nulla di quest’uomo (super-uomo?) e mi ha fatto un gran piacere conoscerlo attraverso questo scritto, grazie Carlomanno.
p.s. ho ordinato il tuo libro e non vedo l’ora di leggerlo.
Grazie mille. Ovviamente il Barone c’entra moltissimo anche nel mio romanzo 😉
Gran bell’articolo, molto interessante.
Non sapevo nulla di quest’uomo (super-uomo?) e ho apprezzato di conoscerlo tramite questo scritto, grazie Carlomanno
p.s. Ho ordinato il tuo libro e non vedo l’ora di leggerlo, sembra scritto apposta per me.
Scusate la ripetizione, mi e’partito il messaggio senza accorgerneme
“Da subito”? È come dire “da immediatamente”.
È un’espressione corretta:
http://www.treccani.it/lingua_italiana/domande_e_risposte/grammatica/grammatica_215.html
Ma grazie comunque per l’utile segnalazione.
Certe volte il vento della Storia produce forze che non si possono controllare. Per scongiurare una sciagura mondiale quale il diffondersi del comunismo e, una volta caduto, la conseguente ereditá del materialismo capitalista globale, il karma ha donato in forma umana l’Essenza della Guerra, il Dio della Guerra.
Come la piena che travolge il letto del fiume, egli travolse il cuore dell’Asia Centrale, fronteggiando e sconfiggendo momentaneamente le nuove forze “repubblicane e moderne”, cinesi e russe. Unico prezzo per il disperato freno della reazione contro il degenero rivoluzionario: il sangue.
E unendo, per l’ultima volta, popoli ed etnie diverse ma con lo stesso antico retaggio sanguigno: il nomadismo selvaggio e il barbarico spirito guerresco delle orde dei khan.