Sebbene ciascuno di essi non rappresenti ancora un teatro di crisi in cui l’unica risoluzione possibile sia quella dello scontro terminale con armi atomiche, resta comunque la preoccupazione per un eventuale precipitare della situazione, che avverrebbe in modo repentino e catastrofico. Pertanto i vari governi hanno aggiornato i propri piani di difesa civile (quelli dell’Italia sono coperti dal più assoluto segreto) e varie agenzie hanno affrontato il problema di come sopravvivere ad uno scontro nucleare dal punto di vista scientifico, stante l’evoluzione nella precisione e nella miniaturizzazione delle armi. Uno studio scientifico del 2014 ad opera di Micheal Dillon, ricercatore presso il Lawrence Livermore National Laboratory, ci rivela in particolare come evitare uno degli effetti di un’esplosione atomica con accurati calcoli matematici: il fallout radioattivo.
Un’arma atomica infatti ha cinque effetti principali: l’onda d’urto, il calore (l’effetto principale dato che per le temperature raggiunte supera la distanza efficace delle radiazioni e dell’onda d’urto), le radiazioni emesse immediatamente al momento della detonazione, l’impulso elettromagnetico (Emp) ed infine la ricaduta radioattiva, detta appunto fallout. Proprio per questi effetti, viene utilizzata per colpire obiettivi di due tipi: induriti, come bunker o silo di missili balistici, con un’esplosione al suolo, d’area, come città, porti, aeroporti e complessi industriali, con un’esplosione in quota. L’efficacia delle armi atomiche, più che dalla potenza, è data dalla precisione: le probabilità di successo di un’arma di una determinata potenza aumentano in funzione della radice cubica della potenza della testata, dato che la maggior parte dell’energia dell’esplosione viene rilasciata verso l’alto, quindi un aumento della potenza risulta marginale rispetto alla precisione del sistema di guida, detta in gergo Cep (Circular Error Probable). Questo spiega perché negli anni ‘50 e ‘60, con Cep molto elevati dell’ordine dei 1500/3000 metri, si ricercassero potenze altrettanto elevate delle testate per avere più chances di distruggere un bersaglio puntiforme, mentre negli ultimi decenni, con sistemi come il Peacekeeper, l’SS-18 o il Minuteman con Cep che si aggirano intorno ai 200/100 metri, le potenze delle testate siano andate diminuendo, con conseguente diminuzione della ricaduta radioattiva. Per gli obiettivi d’area invece, come città o aree portuali, l’esplosione per avere i massimi effetti distruttivi deve avvenire in quota, come dicevamo, e l’altezza ottimale alla quale deve essere fatto detonare l’ordigno è funzione della sua potenza. Ovviamente un’esplosione al suolo causerà molto più fallout di una in quota, a causa della maggior parte di detriti coinvolti dalla detonazione: il materiale del cratere prodotto da una tale detonazione viene lanciato nell’atmosfera e a seconda del suo peso può ricadere a centinaia di km di distanza o addirittura fare il giro del mondo e restare in sospensione a lungo nella stratosfera.
Uno dei vantaggi di questo studio è che permette agli organismi di difesa civile di stabilire molto velocemente la strategia di evacuazione considerando i livelli di radiazione solo nei pressi dei rifugi e lungo le vie di fuga, lasciando lo studio di dettaglio della nube del fallout, che richiede più tempo a causa delle variabili in gioco, ad un secondo momento, e quindi permettendo di salvare la maggior parte della popolazione.
Paolo Mauri