Roma, 21 mar – Corea del Nord, Mar Cinese Meridionale, Siria, Ucraina, Paesi Baltici: aree di tensione in cui la dialettica tra le nazioni sta recuperando terminologie che sembravano dimenticate come “escalation” e “corsa agli armamenti”. Abbiamo già analizzato i vari fronti, evidenziando come per alcuni di essi la strategia degli Stati Uniti non sia affatto cambiata, forte della nuova politica di riarmo voluta dal Presidente Trump, anzi, per alcuni, come per l’Estremo Oriente, è evidente che Washington stia effettuando un netto dietro-front rispetto alla politica di disimpegno voluta da Obama.
Sebbene ciascuno di essi non rappresenti ancora un teatro di crisi in cui l’unica risoluzione possibile sia quella dello scontro terminale con armi atomiche, resta comunque la preoccupazione per un eventuale precipitare della situazione, che avverrebbe in modo repentino e catastrofico. Pertanto i vari governi hanno aggiornato i propri piani di difesa civile (quelli dell’Italia sono coperti dal più assoluto segreto) e varie agenzie hanno affrontato il problema di come sopravvivere ad uno scontro nucleare dal punto di vista scientifico, stante l’evoluzione nella precisione e nella miniaturizzazione delle armi. Uno studio scientifico del 2014 ad opera di Micheal Dillon, ricercatore presso il Lawrence Livermore National Laboratory, ci rivela in particolare come evitare uno degli effetti di un’esplosione atomica con accurati calcoli matematici: il fallout radioattivo.
Un’arma atomica infatti ha cinque effetti principali: l’onda d’urto, il calore (l’effetto principale dato che per le temperature raggiunte supera la distanza efficace delle radiazioni e dell’onda d’urto), le radiazioni emesse immediatamente al momento della detonazione, l’impulso elettromagnetico (Emp) ed infine la ricaduta radioattiva, detta appunto fallout. Proprio per questi effetti, viene utilizzata per colpire obiettivi di due tipi: induriti, come bunker o silo di missili balistici, con un’esplosione al suolo, d’area, come città, porti, aeroporti e complessi industriali, con un’esplosione in quota. L’efficacia delle armi atomiche, più che dalla potenza, è data dalla precisione: le probabilità di successo di un’arma di una determinata potenza aumentano in funzione della radice cubica della potenza della testata, dato che la maggior parte dell’energia dell’esplosione viene rilasciata verso l’alto, quindi un aumento della potenza risulta marginale rispetto alla precisione del sistema di guida, detta in gergo Cep (Circular Error Probable). Questo spiega perché negli anni ‘50 e ‘60, con Cep molto elevati dell’ordine dei 1500/3000 metri, si ricercassero potenze altrettanto elevate delle testate per avere più chances di distruggere un bersaglio puntiforme, mentre negli ultimi decenni, con sistemi come il Peacekeeper, l’SS-18 o il Minuteman con Cep che si aggirano intorno ai 200/100 metri, le potenze delle testate siano andate diminuendo, con conseguente diminuzione della ricaduta radioattiva. Per gli obiettivi d’area invece, come città o aree portuali, l’esplosione per avere i massimi effetti distruttivi deve avvenire in quota, come dicevamo, e l’altezza ottimale alla quale deve essere fatto detonare l’ordigno è funzione della sua potenza. Ovviamente un’esplosione al suolo causerà molto più fallout di una in quota, a causa della maggior parte di detriti coinvolti dalla detonazione: il materiale del cratere prodotto da una tale detonazione viene lanciato nell’atmosfera e a seconda del suo peso può ricadere a centinaia di km di distanza o addirittura fare il giro del mondo e restare in sospensione a lungo nella stratosfera.
Lo studio del dottor Dillon quindi, ci spiega tramite complesse formule matematiche quale sia la strategia migliore per mettersi al riparo dal fallout radioattivo nei minuti successivi dalla detonazione. Innanzitutto, va precisato, il fallout è oggetto del capriccio dei venti: una particolare zona sottovento ne sarà interessata rispetto ad un’altra sopravento magari anche più vicina alla detonazione. Secondo, gli effetti delle radiazioni ionizzanti sui processi biologici tendono a sommarsi ma non è possibile stabilire con precisione quali possano essere le conseguenze: si sa, infatti, che due dosi separate di radiazioni assorbite nell’arco di 24 ore sono cumulative, mentre le stesse ripartite su tempi più lunghi (una settimana), non ottengono lo stesso risultato. Nell’arco di breve tempo poi, gli effetti del fallout svaniscono abbastanza rapidamente: dopo 7 giorni i valori di radiazioni decadono al 10% del valore iniziale mentre nell’arco di 49 giorni si riducono all’1%. L’obiettivo principale, per chi si trova relativamente lontano dal punto zero dell’esplosione (Dillon nel suo studio prende in considerazione una potenza di 10 kton, che è molto bassa e poco verosimile per un ICBM), è quello di evitare il fallout cercando un rifugio adeguato in un tempo adeguato. Non tutte le strutture offrono infatti lo stesso livello di protezione dalle radiazioni: meno sono dense, meno materiale ho a proteggermi dall’esterno, più corro il rischio di assorbirne una dose elevata. I rifugi migliori sono costituiti da quegli edifici costruiti in mattoni, cemento armato, e dotati di un sotterraneo: nascondersi in un parcheggio sotterraneo di un edificio a cinque piani costruito in mattoni e cemento riduce le radiazioni assorbite a 1/200 rispetto al valore esterno, mentre trovarsi al pian terreno di una costruzione ad un livello costruita con materiale leggero, come il legno, le riduce solo della metà, ed in caso di un’esplosione relativamente vicina, se non si viene spazzati via dall’onda d’urto o dal calore, non c’è quasi scampo dalle radiazioni. Quindi che fare se non ci sono rifugi adeguati nelle vicinanze? Meglio restare nel rifugio mediocre o cercarne uno migliore? Quanto a lungo posso restare in un rifugio mediocre? Dillon ha provato a rispondere a queste domande sviluppando un modello matematico: ovviamente se ci si trova in un rifugio sicuro è meglio restarci sino all’arrivo delle squadre di soccorso, oppure, aggiungiamo noi, sino a che non sia passato un tempo sufficiente a far decadere la maggior parte delle radiazioni (tra i 7 e i 40 giorni). Se invece non si ha a disposizione un rifugio di tal tipo ma se ne conosce la presenza a 5 minuti di distanza dalla propria posizione, i calcoli di Dillon suggeriscono di raggiungerlo e di restarci, mentre se tale rifugio si trova a più di 15 minuti di distanza, è meglio trovare un riparo provvisorio immediatamente e restarci per un’ora onde evitare la prima importante ricaduta radioattiva.
Uno dei vantaggi di questo studio è che permette agli organismi di difesa civile di stabilire molto velocemente la strategia di evacuazione considerando i livelli di radiazione solo nei pressi dei rifugi e lungo le vie di fuga, lasciando lo studio di dettaglio della nube del fallout, che richiede più tempo a causa delle variabili in gioco, ad un secondo momento, e quindi permettendo di salvare la maggior parte della popolazione.
Paolo Mauri