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La priorità è combattere il vero razzismo: quello contro noi stessi

by Redazione
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>>>ANSA/RIFIUTI: SITUAZIONE GRAVE A NAPOLIRoma, 8 mar – Nel programma politico di ogni partito o movimento moderno che si rispetti, una parola d’ordine sembra non mancare mai: antirazzismo. Un termine tanto vuoto concretamente quanto utilissimo per squalificare e estromettere dal dibattito qualsiasi interlocutore poco gradito, facendo perdere di vista le questioni politiche principali. Ad avvelenare realmente la vita culturale italiana è stata invece un’altra forma di “razzismo”: quello verso noi stessi, un disprezzo sempre più dilagante verso i concetti di identità, comunità e nazione. Coltivato nelle università e nei circoli culturali d’impostazione internazionalista (marxisti in primis), alimentato dal mito americano e oggi sottolineato da pressanti luoghi comuni («se so magnati tutto», «in Germania non succederebbe», «questa è l’Italia», «faresti meglio ad andare all’estero» i più gettonati) che lasciano intendere scarsa volontà di combattere per la propria terra e approfondire la realtà. Nel suo libro L’Italia può farcela, Alberto Bagnai ha distrutto dati alla mano la convinzione diffusa che ci vuole come un paese dove corruzione ed evasione sarebbero esponenzialmente superiori agli altri paesi del mondo occidentale. Pensiamo solo che il più grande scandalo di corruzione della storia ha riguardato un’azienda tedesca (Siemens) e quanto le nostre eccellenze industriali risultino appetibili sul mercato, tanto che le potenze straniere le stanno progressivamente acquistando tutte: Bertolli, Perugina, Loro Piana e via dicendo, altro che «lunghi tempi della giustizia che allontanano gli investitori esteri».

La lezione è la solita: i paesi che vogliono essere grandi attori politici mantengono saldamente il controllo dei settori strategici della loro industria (e non solo, vedi gli abnormi aiuti della Germania al proprio sistema bancario), fanno “la guerra” ai competitori e non hanno paura né dell’orgoglio nazionale, né di regolare i flussi migratori a seconda delle loro convenienze. Un estero ben lontano dal costituire il bengodi descritto nelle lamentele e nelle facili letture di larga parte dell’opinione pubblica, fomentata nella stampa dalla «propaganda autorazzista» condotta dagli Scalfari, dai De Benedetti e dai Napoletano, alfieri di una visione caricaturale e turistica del nostro paese. Eppure, la nostra nazione avrebbe molte lezioni da trarre dal suo passato per ritrovare l’orgoglio. Senza bisogno di scomodare il patrimonio naturale e artistico, l’antica Roma o il Rinascimento, sin dall’Unità l’Italia è stata una fornace di storia e di idee. Il Risorgimento scrisse pagine memorabili: la Repubblica romana, l’eroismo di Garibaldi e la passione di Mazzini hanno lasciato una traccia indelebile. Mazzini vagheggiò un progetto politico e sociale degno di nota, alimentato dal patriottismo e dell’idea di «doveri dell’uomo» da contrapporre all’astratta nozione dei «diritti universali» di marca francese e anglosassone, di cui oggi vediamo le conseguenze nelle guerre umanitarie. Alfredo Oriani, il Futurismo, «La Voce» furono solo alcuni dei bagliori che accompagnarono la nazione fino al travaglio della Grande Guerra, da cui sorse il fascismo, le cui riforme sociali attirarono l’attenzione internazionale come mai prima d’allora.

In ogni angolo del globo sorsero studiosi e epigoni del regime, come ha documentato Marco Fraquelli nel libro Altri Duci. Mentre Bottai veniva invitato a descrivere il corporativismo agli americani stretti nella morsa della crisi, sindacalisti rivoluzionari e intellettuali animarono un dibattito economico senza pari. Berto Ricci fu uno dei protagonisti più interessanti quanto dimenticati del periodo, l’«umanesimo del lavoro» di Giovanni Gentile invece una delle più belle e disperate perle filosofiche. Legge bancaria, sistema misto pubblico-privato orchestrato da Beneduce: il lascito sociale mussoliniano (di cui la socializzazione delle imprese costituisce la più rivoluzionaria ed effimera esperienza) sopravvisse nel dopoguerra, grazie ai poli industriali e a strutture come l’IRI consentirono la ripresa italiana. Una nazione che seppe (ri)acquistare il ruolo di ponte tra diverse civiltà attraverso la dimensione mediterranea, centrale sin dai tempi di Crispi. L’ENI di Mattei fu uno dei protagonisti di quella stagione, che ancora una volta collocò il genio italiano tra i primi al mondo. Solamente la reazione delle grandi compagnie petrolifere e l’invidia delle potenze “alleate” scrisse la parole fine, con l’assassinio del presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi. Ancora oggi, comunque, questa istituzione figura tra le più importanti del globo, insieme a numerose altre di chiara marca nostrana.

Il sistema dei “distretti industriali” fu un altro fiore all’occhiello, un esempio lodato nella stampa internazionale fino agli anni ’90. Che non ha perso attualità: «l’export italiano tiene soprattutto grazie alle Pmi, anche perché il mantra dei cialtroni autorazzisti da talk show, quello secondo cui le piccole e medie imprese produrrebbero solo ciabatte in quanto incapaci di fare ricerca e sviluppo, è smentito sia dall’evidenza statistica che dagli studi scientifici. È falso che l’Italia soffra di “specializzazione sbagliata” e che il suo export sia circoscritto ai settori della moda e del lusso (comunque degnissimi di attenzione e pieni di potenziale strategico, tant’è vero che i francesi sono venuti a comprarcene i marchi migliori). La meccanica e la farmaceutica sono due nostri punti di forza riconosciuti, e lo sono in settori di nicchia, in cui la dimensione vincente è quella della media impresa, eventualmente aperta all’internazionalizzazione, le imprese che Fortis chiama efficacemente “multinazionali tascabili”». Anche a sinistra diversi intellettuali e economisti, Bagnai in primis, cominciano a capire l’importanza di impostare un discorso nazionale forte. Quando i primi nemici sono gli «incappucciati della finanza» (Federico Caffè) che senso ha combattersi fra fratelli?

Ricostruire pezzo per pezzo una politica estera, demografica e industriale, rilanciare il nostro retaggio sociale sta diventando quindi sempre più fondamentale. Siamo al bivio di fronte alle sfide epocali lanciate dal finanzcapitalismo (denunciato da Luciano Gallino), dalla politica muscolare americana e dai suoi trattati commerciali, dal mercantilismo tedesco, dalle gabbie europee, dallo spettro della Grande Sostituzione e dalla dissoluzione dell’identità e dei confini. Ritrovare il senso dello Stato e del vivere comunitario, difendere la nostra sovranità, riappropriarsi con orgoglio della nostra storia (ormai ridotta a rango di hobby) sono i primi e più importanti passi per chiunque voglia combatterli. La Cina, nelle difficoltà e nell’irrilevanza che la caratterizzava nel secondo dopoguerra, non smise mai di pensare sé stessa come una grande potenza. Da lì riuscì a porre le basi della sua rinascita e della sua attuale importanza internazionale. Il popolo italiano può tornare protagonista ritrovando il primato della politica, ricordandosi di quando e quanto ha saputo essere esempio internazionale, senza rinunciare alla critica verso le numerose anomalie del paese, ma bloccando al contempo ogni cedimento alle élite straniere e a ogni forma di vittimismo. Questo il monito di Bagnai: «L’idea che gli italiani siano una razza inferiore ci assolve dal considerare le nostre responsabilità individuali, sempre che si sia disposti a fare il piccolo salto logico in virtù del quale i corrotti e i lazzaroni sono sempre tutti tranne uno: “io”, il più lurido dei pronomi, come diceva l’Ingegnere (ovviamente non De Benedetti: Gadda). E certo che se ogni “io” pensa di non poter fare nulla perché tutti gli altri son cialtroni, e a questo si rassegna, uscirne sarà difficile! Distruggere l’identità dei colonizzati è, ed è sempre stata, anche in tempi recenti, una deliberata strategia dei colonizzatori». La lezione di Faye resta valida: «un Sistema non uccide i popoli assegnando loro prove insormontabili guerre, carestie, epidemie, ma rodendo all’interno il loro voler vivere, sradicandoli dall’humus della loro cultura, scoraggiando ogni loro volontà di costruirsi un avvenire».

Agostino Nasti

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2 comments

Gruppo di Studio AVSER 9 Marzo 2016 - 2:21

Sottoscrivo in pieno questo bellissimo articolo e facci i miei più vivi complimenti all’autore!! Queste sono parole importanti, che dobbiamo affiggere nei nostri cervelli e nei nostri cuori a perenne monito di miglioramento.

Sandro Righini
Gruppo di Studio AVSER

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Anonimo 9 Marzo 2016 - 6:32

Grazie di cuore Sandro! Speriamo non restino solo parole.
Francesco Carlesi

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