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Via Rasella, la verità oltre le strumentalizzazioni politiche

by La Redazione
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Rasella

Recentemente, in occasione della commemorazione di uno degli eventi più tragici della storia italiana – la strage delle Fosse Ardeatine – il dibattito pubblico italiano, in seguito ad inopportune dichiarazioni di eminenti personaggi delle istituzioni della Repubblica, è stato travolto da una serie di violente polemiche, prive di ogni buon senso e anche della minima conoscenza storica dei fatti. E’ opportuno, quindi, ritornare sull’argomento, rammentando che via Rasella non è che uno dei tantissimi episodi di sangue – Boves, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto – che costellarono quella tremenda e sanguinosa stagione della storia d’Italia, le cui responsabilità – come si è fatto per oltre settant’anni – non possono continuare ad essere oggetto di becera strumentalizzazione politica.

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, un estratto dal libro di Tommaso Indelli, Controstoria della Resistenza. Uomini, fatti e responsabilità della guerra civile (1943-1945), Introduzione di Valerio Benedetti, Postfazione di Gianluca Veneziani, illustrazioni di Tommaso Indelli, Altaforte Edizioni, pp. 231, Euro 15,00.

 

Pp. 82-88.  “….Passando all’esame dei fondamenti giuridici dell’esercizio del diritto di rappresaglia – da parte dei Tedeschi e dei fascisti – ci si dimentica spesso del fatto che, in molte sentenze emesse dalla giurisdizione militare italiana e alleata alla fine della guerra, in vicende giudiziarie specifiche connesse al conflitto, esso fu riconosciuto pienamente legittimo, ovviamente alla luce del diritto internazionale di guerra – ius in bello – allora vigente. Infatti, nel 1948, uno dei principali responsabili della rappresaglia seguita all’attentato gappista di Via Rasella – dove, il 23 marzo del 1944, erano morti 33 soldati altoatesini, riservisti appartenenti alla 9ª  compagnia del battaglione del Polizeiregiment Bozen, della polizia militare germanica – l’Obersturmbannführer (tenente colonnello) Herbert Kappler (†1978), capo delle SS e della Gestapo a Roma, fu condannato all’ergastolo, dal tribunale militare di Roma (sentenza 20 luglio 1948), non per l’esecuzione della rappresaglia  – che fu considerata legittima -, ma perché gli fu imputata, a titolo d’omicidio premeditato, l’uccisione di cinque Italiani in più – 335 anziché 330! -, di quelli che avrebbero dovuto essere effettivamente fucilati, in base al criterio applicato dai Tedeschi e, cioè, “dieci Italiani per ogni Tedesco ucciso”. Si rammenti, inoltre, che gli Altoatesini appartenenti al Polizeiregiment Bozen erano componenti di una formazione di polizia militare adibita al pattugliamento delle strade di Roma e al presidio di alcuni importanti edifici di interesse pubblico, perché sedi di ministeri, uffici amministrativi o del personale del comando germanico in città e che – contrariamente a quanto sostenuto da certa storiografia antifascista – non erano affatto membri delle SS, intenti ad eseguire operazioni di rappresaglia o rastrellamento. Inoltre, questi soldati, fino all’8 settembre del 1943, cioè all’annuncio dell’armistizio, erano stati a tutti gli effetti cittadini italiani. Infatti, all’indomani dell’occupazione germanica della penisola, il III Reich, per ragioni militari, aveva formalmente annesso tutta la Venezia Tridentina – con le province di Belluno, Bolzano e Trento – e la Venezia Giulia  – con le province di Trieste, Udine, Pola, Gorizia, Fiume, Spalato, Lubiana –  sottraendone il controllo al governo italiano e costituendo le zone militari speciali dell’Operationszone Alpenvorland (OZAV) – Zona d’Operazioni delle Prealpi -, e dell’Operationszone Adriatisches Küstenland (OZAK) – Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico -, sotto diretto controllo germanico. L’uccisione dei 335 ostaggi italiani da parte dei Tedeschi avvenne presso la cave di arenaria ubicate sulla Via Ardeatina, fuori Porta San Sebastiano. Le esecuzioni iniziarono al tramonto del 24 marzo e – salvo brevi interruzioni – si conclusero intorno alle 14 del giorno 25. Come è noto, la rappresaglia causò la morte di 335 Italiani tra cui due iscritti al Partito Fascista Repubblicano e Aldo Finzi, ebreo e sottosegretario alla Presidenza del primo governo Mussolini, tra il 1922 e il 1924. Le vittime della rappresaglia – antifascisti, Ebrei, comuni cittadini -, furono prelevate dalle prigioni gestite dalle SS e dalla Gestapo a Roma, in Via Tasso 155, dove erano ubicati, prima della guerra, alcuni uffici dell’ambasciata tedesca, che aveva sede in un edificio poco distante. La struttura di Via Tasso fu trasformata in una grande prigione politica all’indomani dell’occupazione tedesca dell’Urbe, avvenuta l’11 settembre del 1943. Molti degli Italiani fucilati alle Ardeatine furono prelevati anche dal carcere romano di Regina Coeli. In tal caso, le autorità di pubblica sicurezza della Repubblica Sociale – il questore di Roma, Pietro Caruso, e il direttore del penitenziario, Donato Carretta – che dipendevano dal ministero dell’Interno della Repubblica, tentarono di frenare, ma invano, la furia tedesca e dovettero piegarsi, data la situazione, a fornire le vittime richieste. Nel settembre del 1944, dopo l’occupazione alleata dell’Urbe, Caruso e Carretta furono denunciati e messi sotto processo per la loro complicità nel massacro. Caruso fu fucilato, Carretta linciato dalla folla e gettato nel Tevere. Occorre ribadire che l’atto terroristico dei gappisti – che causò la rappresaglia – nel 1948 fu giudicato illegittimo dal tribunale militare italiano e contrario alle leggi di guerra, perché eseguito in autonomia, in spregio delle direttive emanate dal governo Badoglio – che, nel 1944, si trovava a Salerno – che miravano a salvaguardare lo status di Roma “Città Aperta” e, quindi, ad evitare che l’Urbe continuasse a subire il martellamento dei bombardamenti alleati. Inoltre, ai gappisti fu contestato, dal tribunale militare, il possesso di alcuni requisiti – richiesti dalla prima Convezione dell’Aia del 1907 (art.1) – per l’attribuzione della qualifica di combattenti a gruppi di volontari armati. Il mancato riconoscimento dello status di belligerante ai partigiani comportava la non applicazione, nei loro confronti, di molte di quelle guarentigie previste dal diritto internazionale e dalla legislazione penale militare, vigente in periodo di guerra, e quindi giustificava, in molti casi, sotto il profilo giuridico, il trattamento duro che era stato loro riservato dai fascisti e dai Tedeschi, compresa la fucilazione immediata in caso di cattura, generalmente non applicabile ai soldati di un esercito nemico. E, infatti, come è noto, la direttiva 333/op. – emanata, nel dicembre del 1943, dal generale Giovanni Messe (†1968), capo di stato maggiore generale del Regio Esercito del Sud – proibiva ai partigiani espressamente azioni omicide ai danni di fascisti e Tedeschi – a meno che non fossero strettamente necessarie a fini bellici – e autorizzava – e sempre sotto il coordinamento del regio comando militare – solo le azioni di spionaggio e sabotaggio ai danni del nemico. L’ordinanza prevedeva anche che le bande partigiane operassero, prevalentemente, sotto il comando di ex ufficiali del Regio Esercito e che i loro effettivi, secondo le convenzioni internazionali, fossero riconoscibili come combattenti, quindi dotati di uniforme o, quanto meno, del segno distintivo rappresentato da un nastro tricolore al bavero della giacca. Finalmente, oggi, a tanti anni di distanza, e nonostante le omertà e il pregiudizio ideologico, le reali ragioni della strage di Via Rasella appaiono chiare. Si trattò di un atto avente motivazioni esclusivamente politiche tutte interne al Partito Comunista Italiano e connesse al conflitto ideologico e tattico accesosi, nella primavera del 1944, tra le due direzioni nazionali del partito. Da una parte, stava la direzione milanese, guidata da personaggi del calibro di Pietro Secchia (†1973) e Luigi Longo (†1980), dall’altra la direzione di Roma, tra i cui membri erano Mauro Scoccimarro (†1972) – che svolgeva le funzioni di reggente del Partito Comunista, in assenza di Togliatti – e Giorgio Amendola (†1980). Mentre la direzione milanese auspicava, contro Tedeschi e fascisti, una linea di condotta dichiaratamente violenta ed insurrezionale – fatta di attentati e sabotaggi – la direzione romana propendeva per una maggiore cautela, anche in vista del prossimo ingresso degli Alleati nell’Urbe. Inoltre, la direzione di Roma, proprio perché collocata nella capitale storica della Nazione – prossima alla “liberazione” – pretendeva di esercitare il suo controllo anche sulla direzione milanese e su tutto l’apparato del Partito Comunista Italiano. Nonostante ciò, nel marzo del 1944 Secchia e Longo scatenarono una dura polemica contro la direzione romana e, soprattutto, contro Giorgio Amendola, responsabile politico dei GAP romani. Amendola fu accusato da Secchia di inefficienza, incompetenza e lassismo, e la direzione milanese minacciò pesanti conseguenze per la sua carriera politica – all’interno del Partito Comunista – se non avesse agito in maniera più risoluta contro i Tedeschi e i fascisti romani. Insomma, secondo la direzione milanese bisognava alzare il tiro e il livello di scontro – proprio come stava avvenendo nel nord Italia – e agire contro Tedeschi e fascisti con un’azione militare di forte impatto politico che avrebbe aumentato il peso del Partito Comunista all’interno del CLN di Roma e, allo stesso tempo, avrebbe accresciuto il suo potere contrattuale nei confronti degli Alleati, quando sarebbero giunti nell’Urbe. La cosa, infatti, sembrava imminente perché, nel gennaio del 1944, gli Alleati, con 5 divisioni, erano sbarcati sulle coste del Lazio meridionale tra Anzio e Nettuno, assicurandosi il controllo di un’area di circa 24 chilometri, cercando, in tal modo, di aggirare il complesso fortificato tedesco – Linea Gustav – che andava da Gaeta al Gargano, passando per Montecassino. La controffensiva tedesca bloccò il tentativo angloamericano, respingendo le 5 divisioni lungo la costa laziale. Solo a maggio, la V Armata Americana, proveniente dalla Campania, avrebbe sfondato la Linea Gustav e si sarebbe congiunta con le divisioni alleate nel Lazio meridionale, entrando infine a Roma, il 4 giugno del 1944. Tuttavia, nella primavera del 1944, pressato dalla direzione milanese, Amendola cominciò a temere che, se non si fosse deciso ad agire, Secchia e Longo avrebbero minato la sua reputazione di fronte allo stesso segretario del Partito Comunista, Palmiro Togliatti (†1964), che sarebbe ben presto tornato in Italia dall’URSS, per avviare la nota “svolta di Salerno” col governo Badoglio e tutte le forze antifasciste – aprile 1944 -, per coinvolgerle nel sostegno al governo fino alla liberazione della penisola dai nazifascisti. E così, su ordine di Amendola – senza l’accordo con le altre forze antifasciste del CLN romano e dello stesso governo Badoglio – alcuni gappisti comunisti, al comando di Rosario Bentivegna (†2012) – poi insignito, nel 1951, della medaglia d’argento al Valor Militare – posizionarono in Via Rasella, nel famigerato carretto dei rifiuti, l’ordigno che causò l’esplosione e la morte dei 33 militari altoatesini e di alcuni civili presenti sul posto come il passante Antonio Chiaretti e il dodicenne Pietro Zuccheretti. Inoltre, la rappresaglia tedesca – che seguì all’attentato – consentì al Partito Comunista, in un sol colpo, di conseguire due importanti obiettivi politici: esacerbare i rapporti tra la popolazione romana e gli occupanti germanici e, inoltre, ottenere dai Tedeschi – e senza sporcarsi le mani – l’eliminazione di elementi antifascisti romani non comunisti – come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, facente parte del Centro Militare Clandestino di Resistenza, che operava a Roma al servizio del governo Badoglio – o elementi comunisti poco disciplinabili come i trotskisti della formazione Bandiera Rossa, che languivano in carcere fin dal gennaio del 1944, quando erano stati arrestati dai Tedeschi, forse grazie ad una soffiata di qualche membro del Partito Comunista. L’eliminazione dei membri della formazione Bandiera Rossa – seguita all’attentato di Via Rasella – non fu un caso isolato, ma la regola, perché i partigiani comunisti non erano soliti eliminare solo esponenti antifascisti di diverso colore politico, ma anche marxisti poco disciplinabili e poco in linea con le direttive del partito….” 

 

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Ppj 10 Aprile 2023 - 12:55

… sono sempre stati una banda di briganti al pari di barabba ai quali non è dovuto nessun onore. Per fortuna hanno fallito il loro unico interesse… sostituire una dittatura con un’altra…la loro.

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