Cernobbio (Co) , 9 apr – “Le persone sono inclini a sostenere il capitalismo se questo produce crescita, redditi crescenti per tutti, e anche se [il capitalismo] ha almeno una qualche sembianza di essere corretto. Sfortunatamente, nessuna di queste condizioni si verifica oggi negli Stati Uniti. Credo che la crescita sia molto limitata, e riservata in modo sproporzionato a una piccola frazione della popolazione. Questo crea la sensazione di un gioco truccato”. Questa la parte centrale dell’intervento del famoso economista Luigi Zingales, nel corso di una intervista di Bloomberg Tv a margine dell’ultra-esclusivo Workshop Ambrosetti tenuto come ogni anno a Cernobbio, nella suggestiva cornice del Lago di Como.
Il medesimo Zingales aggiunge poi che, se in Europa il Regno Unito presenta le caratteristiche economiche più simili a quelle degli Usa, la sua valutazione può direttamente estendersi praticamente a tutto il mondo occidentale.
Parole pesanti, soprattutto perché provengono da un’economista tutt’altro che estraneo alle stanze dei bottoni, essendo professore alla scuola di economia dell’Università di Chicago, in cui presiede un importante think tank, nonché già membro del consiglio di amministrazione dell’Eni in epoca renziana (2014-2015) e precedentemente di Telecom Italia (2007-2011), con la poco fortunata parentesi – tra il 2012 e il 2013 – del movimento politico “Fermare il declino”, di cui fu fondatore con Oscar Giannino e – sia perdonato il gioco di parole – non riuscì a fermare il proprio precipitoso declino in seguito al piccolo scandalo della laurea del noto opinionista economico radio-televisivo. Un piccolo incidente di percorso, quest’ultimo, che, oltre a non pregiudicargli l’ottima poltrona nel CdA dell’Eni, consente di collocarlo a buon diritto nel campo degli economisti ultra-liberisti: quelli, per intendersi, secondo i quali lo Stato deve ritirarsi il più possibile rispetto al mercato che tutto magicamente sistemerebbe.
Invece, a quanto pare, il capitalismo e il suo mercato si sono risolti in un gioco pesantemente truccato. Adesso che è Zingales a dirlo, magari quella che era da tempo un’evidenza potrebbe diventare conoscenza comune, sostanziata – negli Usa con dati evidenti ma nel resto del blocco economico occidentale con ottima approssimazione – da tendenze di lungo periodo. Tra queste, lo straordinario disaccoppiamento tra valori azionari e tasso di occupazione, con i primi cresciuti di sette volte dal 1990, mentre il secondo è calato dal 67% al 63% nello stesso periodo. Soprattutto, però, la gran parte della nuova ricchezza prodotta fin dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso è finita nelle mani dell’1% più ricco della popolazione americana, a scapito del 90% meno abbiente, tra cui tutta la ormai ex classe media d’oltre oceano. Evidentemente, le due tendenze sono anche strettamente legate tra loro, tanto più che la concentrazione dei redditi verso la cima della piramide sociale ha subito una forte accelerazione proprio in corrispondenza del balzo delle quotazioni di borsa nell’ultimo decennio del ventesimo secolo.
Nonostante una certa inerzia prodotta dal welfare europeo, tendenze del tutto analoghe si sono infine affermate anche nel vecchio continente e, a questo proposito, è eloquente la successiva dichiarazione dello stesso Zingales: “Penso che il quantitative easing (Qe) aggravi le diseguaglianze di reddito… tuttavia Mario Draghi (presidente della Banca centrale europea, ndr) non poteva fare che questo”. Senza addentrarsi nei meandri dei limiti di mandato della Bce, appare paradossale che l’autorità monetaria europea abbia intrapreso ormai da oltre un anno la strada che a Washington aveva da tempo accelerato la distruzione dei redditi della classe media. A meno che il compito di rendere i ricchi sempre più ricchi non fosse quello realmente assegnato dall’inizio all’ex dirigente di Goldman Sachs. Del resto, fummo tanto facili quanto inascoltati profeti su queste colonne nell’ormai lontano gennaio 2015, quando scrivemmo, articolando poi in dettaglio, che “l’obiettivo è sempre quello di circoscrivere i beneficiari della liquidità immessa a una cerchia particolarmente ristretta, vale a dire chi gestisce la creazione del denaro, i quali avranno a loro volta l’unico scopo di preservare il valore nominale delle enormi quantità di denaro generate dal nulla”.
Se per un verso lo stesso Draghi mette oggi prudentemente le mani avanti, lanciando l’allarme sulla tenuta dell’Europa avvitata nella spirale deflazionaria nonostante le molte centinaia di miliardi di euro gettati al vento, e il suo omologo al ribasso Ignazio Visco – governatore della esautorata Banca d’Italia – parla esplicitamente di compressione dei salari praticamente inevitabile, fa una certa impressione che sia i due governatori che lo stesso economista della scuola di Chicago (Zingales, appunto) non solo dimostrino che la faretra delle soluzioni miracolose è ormai priva di frecce, ma che in fondo non abbiano minimamente compreso la situazione, salvo il fatto – meglio tardi che mai – che la crisi entrata nell’ottavo anno sia una crisi della domanda originata dalla compressione delle retribuzioni corrisposte alle sterminate masse di lavoratori ordinari. Nessuno di questi soggetti, infatti, è riuscito a compiere quel salto intellettuale necessario a identificare nella globalizzazione capitalistica la ragione politica originale di tanto disastro, associata a tutto il complesso dei fenomeni che spazia dalla delocalizzazione manifatturiera, all’esportazione tecnologica e fino alla piaga dei flussi migratori.
Così come, tanto meno, nessuno di loro ha la minima idea dell’origine, tanto concreta quanto molto poco evitabile, della suddetta compressione dei salari e quindi della domanda globale, identificata da tempo nell’aumento dei costi all’origine delle materie prime, energetiche in primo luogo. Un problema oggettivo rispetto al quale le soluzioni monetariste – dal quantitative easing alle politiche di interessi zero o perfino negativi come vigono oggi in Europa, fino ai provvedimenti estremi dei soldi distribuiti a tutti, per esempio in forma di reddito di cittadinanza, che disincentiverebbero la responsabilità individuale (misure sciaguratamente sostenute, in Italia, dai grillini) – non possono funzionare, come dettagliatamente illustrato nel suo ultimo intervento dall’analista Gail Tverberg. Né potrebbero avere migliore fortuna, anche in Europa, politiche protezionistiche non sostenute da una radicale transizione a una sostanziale autarchia continentale che, sebbene resa concretamente possibile dalle nostre immense risorse umane e culturali, appare oggi ridotta a un miraggio sia dalla subalternità al padrone americano sia dalla zelante benevolenza rispetto all’invasione allogena.
Francesco Meneguzzo