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Bruno Pesaola e quel calcio che parlava di epiche battaglie

by Marco Battistini
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Roma, 26 feb – Si dice che vincere non sia mai cosa scontata. Nel calcio italiano poi conquistare trofei lontano dall’asse Torino-Milano è – anche statisticamente parlando – davvero molto difficile. Farlo in tre città diverse diventa un caso, se non unico, decisamente raro. In tal senso la bacheca di Bruno Pesaola (1925-2015) parla da sé: Coppa Italia con il Napoli, scudetto a Firenze, ancora coccarda tricolore sulla panchina del Bologna. Ma prima di essere un ottimo allenatore questo napoletano nato all’estero è stato anche un affermato esterno d’attacco. Andiamo con ordine.

L’esperienza romana

Papà marchigiano e mamma spagnola cresce calcisticamente nelle giovanili del River Plate, sotto l’ala protettiva di un altro italo-argentino, quel Renato Cesarini che oggi dà il nome alla famosa “zona” posta oltre al novantesimo.

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La voglia di conoscere la terra del padre ben si concilia con l’interesse della Roma per il suo mancino furbo e scattante. L’arrivo nella Città Eterna lo catapulta in un altro mondo (leggenda vuole che attraversando una zona di rovine archeologiche «le scambiammo per macerie di guerra»), al quale si abitua però ben presto. La genuinità di Trastevere certo, ma anche i ristoranti più rinomati, la conoscenza di attori e cantanti.

In campo la squadra giallorossa stenta, ma Pesaola non sfigura. Nelle prime settimane del 1950 – proprio il 26 febbraio – l’episodio che, in un certo senso, gli cambia la carriera. Sul finire di una tesissima gara giocata contro il Palermo un giocatore rosanero colpisce Petisso – il piccoletto – con un calcio a palla lontana. Rottura di tibia e perone, diagnosi che nel pallone di metà novecento avrebbe anche potuto significare un addio all’attività agonistica.

Napoli e Novara, le maglie azzurre

Conclusa l’esperienza romana vorrebbe far ritorno in Argentina, ma l’interesse convinto di Silvio Piola lo convince ad accettare la chiamata del Novara. Lasciati alle spalle i problemi fisici, nel biennio in Piemonte Pesaola conferma quanto di buono aveva fatto vedere nella capitale. Così il Napoli se lo assicura per 33 milioni (di lire, ovviamente). Da una maglia azzurra all’altra: il centro partenopeo diventa l’amore di una vita, “posto dove non ti senti mai solo”, tanto da autodefinirsi appunto un napoletano nato all’estero. Otto anni, oltre quattrocento presenze, il battesimo del San Paolo. E ventisette reti, di cui una – a San Siro contro l’Inter – diventata sigla della Domenica Sportiva.

La carriera da allenatore

Genoa e Scafatese prima di appendere gli scarpini al chiodo. Con la compagine gialloblu inizia contestualmente la carriera da allenatore. Neanche metà stagione e prende subito la via del ritorno nell’ormai “sua” Napoli. Con gli azzurri, nel frattempo retrocessi in cadetteria, riconquisterà la Serie A – e, unica squadra di B ad esserci riuscita – la Coppa Italia (1962). Arriverà successivamente un’affermazione europea, la Coppa delle Alpi. Con una costante azione psicologica riuscirà poi a far convivere Sivori e Altafini.

Qualcosa nell’ambiente però si rompe. Così Pesaola, sempre con una sigaretta sulle labbra e l’iconico cappotto di cammello al seguito, firma per la Fiorentina. La stagione 1968/69 è combattutissima, ma tra il Milan trainato da Rivera e il Cagliari di Gigi Riva a godere – un po’ a sorpresa – è proprio la Viola, lanciata verso lo scudetto dalla rete decisiva di cavallo pazzo Chiarugi.

Il tempo di vincere un’altra Coppa Italia a Bologna – seconda e ultima dei felsinei – prima di tornare nuovamente a Napoli. Ci sarà spazio anche per un’avventura greca alla guida del Panathinaikos. Convincenti alternative allo strapotere del Nord, le squadre di Petisso badavano a difendersi ma sapevano far male. Per usare le parole dei tifosi azzurri, il suo calcio “parlava di uomini e maglie e di epiche battaglie”.

Marco Battistini

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