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Autonomia differenziata, come uscire dalla polarizzazione del dibattito pubblico

by La Redazione
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Autonomia differenziata

Roma, 28 gen – C’è chi l’ha chiamata la «secessione dei ricchi» e chi tenta di dimostrare che a guadagnarci sarebbe soprattutto il meridione, chi ancora insiste sul presunto saccheggio di risorse avvenuto nel tempo a danno del nord e chi invoca un revanscismo neoborbonico tanto imbarazzante quanto fuori tempo massimo. Anche sul tema della cosiddetta «autonomia differenziata», oggetto di una riforma in fieri, non si esce dall’ormai consolidato schema della radicale polarizzazione del dibattito. Una trama che prescinde dalle ragioni (e dai ragionamenti) delle parti e, così facendo, getta la discussione in una caciara dalla quale intendiamo tenerci ben lontani. Sia da un lato, quello del settentrione presuntamente defraudato di risorse, che dall’altro, vale a dire la retorica che vorrebbe il mezzogiorno strutturalmente inefficiente nell’allocazione della spesa pubblica.

Il dibattito sull’autonomia differenziata

Una narrazione, quest’ultima, che ha radici ben lontane. Risale infatti alla Cassa per il Mezzogiorno, che una certa pubblicistica vorrebbe croce e delizia della marea di denari gettati al macero. Ora, che vi siano state pieghe oscure nell’utilizzo dei fondi nessuno, crediamo, lo ha mai messo in dubbio. Così come è però fuori discussione anche che, nella più generosa delle ipotesi, nel corso della sua esistenza la Cassa non ha mai mosso più dello 0,7% del Prodotto interno lordo (0,5% in media). Valore certo non del tutto irrilevante, ma nemmeno decisivo per giustificare una qualche forma di preferenza dello Stato rispetto al meridione. Anzi: negli stessi decenni, in media, al nord gli investimenti assommavano ad oltre il 3% del Pil. La distanza è netta e spiega buona parte della minore dotazione infrastrutturale da Abruzzo e Campania in giù.

Situazione che è, peraltro, rimasta cristallizzata nei decenni successivi alla liquidazione dell’istituto. Sia che si consideri la pubblica amministrazione in senso stretto oppure il settore pubblico allargato (comprendente anche la spesa delle imprese pubbliche locali e nazionali), si riscontra infatti un differenziale di spesa pro-capite tra sud e centro-nord quantificabile tra un massimo di oltre 4mila (stime Agenzia per la coesione territoriale) ad un minimo di poco più di 1000 euro (secondo la Banca d’Italia). Comunque la si guardi, insomma, è evidente un divario in termini di distribuzione della spesa a vantaggio delle regioni settentrionali. La ragione di questo divario è imputabile, tra le altre cose, a perversi meccanismi di gestione della spesa pubblica che spesso non allocavano – e non allocano – la stessa sulla base delle (misurabili) esigenze dei territori. L’esempio paradigmatico e forse più noto è quello degli asili nido, per la costruzione (e soprattutto la gestione) dei quali fino a pochi mesi fa valeva il criterio della spesa storica. A dire: se il comune non ha mai attivato dei posti allora significa che non ne ha veramente bisogno. Nel momento però in cui lo scorso governo ha rimodulato gli stanziamenti non più appoggiandosi alla spesa storica bensì alla volontà di garantire ovunque almeno il 33% di posti per i bambini da 0 a 3 anni, ecco che miracolosamente ci si è accorti che centinaia di comuni del sud non avevano mai visto i fondi necessari anche solo per pensare ad una loro attivazione, anche se numerosi comuni di nord si sono trovati con una rinnovata ampia disponibilità di stanziamenti per attivare i posti. Replicando il discorso vuoi per la sanità, vuoi per la manutenzione delle strade, vuoi per qualsiasi altra funzione demandata al livello locale, si comprende la natura della distanza di spesa tra centro-nord e sud.

Come affrontare il dibattito

Perché, vien da chiedersi, il comune (o la regione, o in passato la provincia) del sud non hanno mai potuto disporre di tali risorse? È tutta questione di incapacità amministrativa? Forse, ma ci permettiamo di suggerire che la principale ragione risieda nel fatto che in quelle aree d’Italia il Pil pro-capite è notoriamente più basso. Ne consegue che più modeste sono le entrate di cui le amministrazioni locali possono disporre e, di conseguenza, spendere. È qui che si innestano tutte le citate problematiche della spesa storica. E sempre qui emerge con forza come il problema, prima che nella distribuzione delle fette della torta, sia nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (altrimenti noti come «Lep», che in sanità si declinano sotto forma di «Lea», livelli essenziali di assistenza) da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale: quanti posti in asilo nido vogliamo garantire? Quanti posti letto e in quanti ospedali a seconda, tra le altre cose, degli indici di deprivazione socio-economico-culturali? Quanto costa la manutenzione di un chilometro di strada tenendo conto, ad esempio, delle variabili topografiche?  Solo una volta data la risposta a queste (e a centinaia di altre) domande, individuati i corrispondenti fabbisogni standard e subordinato il tutto allo stanziamento delle risorse necessarie per far fronte al servizio da erogare, si può iniziare a discutere di quante risorse lasciare nella disponibilità delle aree più benestanti. Al contrario, se l’approccio sarà invertito – cioè, come adesso, basato solo o per la maggiore sulla spesa storica: un criterio che la relazione illustrativa al Ddl sull’attuazione dell’autonomia differenziata non manca di citare in maniera esplicita – allora ciò significherà cristallizzare la situazione esistente, lasciando intere zone della nazione al loro destino perché la spesa pubblica non avrà più il compito di ridurre i divari e redistribuire il reddito, bensì il contrario: trattenendola laddove vi è maggiore disponibilità fiscale, tenderà ad ampliarli. Ammesso e non concesso che sia questo il fine ultimo del dibattito sull’autonomia differenziata. Intendiamoci: se un territorio ritiene di poter usufruire di opportunità migliori solo perché dispone di una maggiore ricchezza, la richiesta è perfettamente legittima. Almeno, però, non la si mascheri per equità o, peggio ancora, per misura destinata a migliorare l’efficienza anche di quelle regioni i cui residenti rischiano di ritrovarsi cittadini di serie inferiore.

Filippo Burla

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