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Come l’Espresso ha ucciso ancora Sergio Ramelli

by Roberto Derta
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Milano, 29 apr – A quarant’anni dal suo barbaro omicidio, c’è chi proprio non sopporta che Sergio Ramelli, giovanissimo militante del Fronte della Gioventù che perse la vita in una vile aggressione sotto il portone di casa, sia morto solo una volta.

È il caso del settimanale l‘Espresso, che in un suo indicibile articolo ha pensato di uccidere virtualmente una seconda volta Sergio Ramelli. Un campionario di inesattezze e di spregevoli se non dubbi contributi, come quello dell’Osservatorio delle nuove destre del discutibile Saverio Ferrari, già in passato criticato anche all’interno della sua stessa area, arricchiscono un vero e proprio campionario di luoghi comuni finalizzato a scandalizzare il suscettibile lettore medio dell’Espresso.

sasso

Michele Sasso

L’autore è tale Michele Sasso, collaboratore anche del Fatto quotidiano, che nel 2014 ha vinto addirittura il premio giornalisti del Schermata 2015-04-29 alle 12.25.10Mediterraneo dedicato al tema “Inchieste e reportage per raccontare i conflitti e le missioni di pace”. Missioni di pace, come quelle che compiva Avanguardia Operaia, forse. O quelle che si basavano sui dossier di “nemici del popolo” redatti da Ferrari dagli anni ’70 a oggi. O come l’assalto a colpi di molotov al bar “Porto di classe” per il quale il diligente schedatore fu condannato. Missioni di pace, forse, come quella che, qualche sera fa, ha visto gli eredi degli assassini di Ramelli devastare una sede politica, la sede di un sindacato e dar fuoco alla libreria Ritter senza che l’Espresso abbia ritenuto di doverne dare conto.

Ebbene, per questi luminari del libero pensiero Sergio Ramelli “non sarebbe però un martire” (l’hanno scritto davvero!), poiché una foto del 12 aprile 1973 – il famoso “giovedì nero” in cui, in seguito a violenti tafferugli di piazza, perse la vita un agente di polizia – ritrarrebbe il ragazzo in piazza con i manifestanti. A prescindere dalla traballante veridicità del documento, garantita solo da questi specchiati libertari, la cosa dimostra al massimo che Ramelli era sceso in piazza per protestare contro la mancata autorizzazione a una manifestazione di un partito legalmente rappresentato in Parlamento, reagendo a un sopruso bello e buono. Quali colpe ataviche siano dimostrate da questa foto lo sanno solo Ferrari e il suo compagno di merende Sasso.

La storia di Sergio Ramelli è invero assai semplice e chiara. Era un ragazzo come tanti, che viveva i suoi 19 anni diviso tra lo studio, la passione per il calcio, la fidanzata e la politica. Frequentava l’Istituto tecnico Molinari di Milano, quando fu bollato con il marchio di “fascista” solo per aver scritto un tema in classe in cui criticava l’operato sanguinario delle Brigate Rosse.

ramelliNel gennaio 1975 il suo professore di lettere assegna un tema in cui chiede agli alunni di parlare di attualità. Sergio, sceglie di parlare delle Brigate Rosse. Racconta di come il duplice omicidio di un anno prima dei missini di Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, sia stato l’inizio della spirale di odio e terrore in cui i terroristi di sinistra stavano macchiando di sangue l’Italia. Sergio non può nemmeno immaginare che quel tema sarà la sua condanna a morte. Quel tema il professor Melitton, non lo correggerà mai. Al termine del compito, infatti, uno dei compagni di classe di Sergio viene incaricato di raccogliere tutti gli scritti. Quando è nel corridoio, un gruppetto di rappresentanti di Avanguardia Operaia, il collettivo più forte del Molinari, strappa di mano al ragazzo il tema per leggerlo e controllarlo frase per frase. Un paio di ore più tardi, il tema di Sergio verrà affisso nella bacheca all’ingresso della scuola. Tutte le frasi, o quasi, sono sottolineate. E, sopra, una scritta rossa: “ecco il tema di un fascista”.

Da quel momento in poi Sergio diventò un bersaglio con il quale giocare al tiro a segno. Una mattina lo aspettarono sotto casa. Il gruppo, composto da ragazzi più grandi di lui, e che Sergio neppure conosceva, obbligarono Sergio a riverniciare i muri dell’istituto. Lo chiamarono lo “sbiancamento”, in realtà fu solo l’ennesima umiliazione. Ottanta “compagni” (questo racconteranno alcuni testimoni ai magistrati durante le indagini per la morte di Sergio), contro un ragazzino di neppure vent’anni.

Qualche giorno prima dell’aggressione, cominciarono le telefonate anonime a casa. Dall’altra parte della cornetta nessuna parola, soltanto l’inconfondibile motivetto di Bandiera Rossa. Successivamente comparvero le scritte sotto casa: “Ramelli fascista sei il primo della lista”. Tutti le lessero ma nessuno pensò di dover proteggere quel ragazzo ingiustamente perseguitato.

Giovedì 13 marzo 1975 Sergio andò a scuola come tutti i giorni. Seguì le lezioni e aspettò il suono della campanella per riprendere il suo vecchio motorino usato e tornare a casa. Qualche giorno prima, Roberto Grassi, uno dei capibastone di Avanguardia Operaia aveva deciso che Sergio doveva essere l’obiettivo della loro prima aggressione. Il loro battesimo di sangue. C’era uno slogan della sinistra extraparlamentare di quegli anni: “Hazet 36. Fascista dove sei?”. La Hazet 36 è una chiave inglese lunga quarantacinque centimetri che pesa quasi tre chili e mezzo. Un colpo inferto con una Hazet 36 è letale come il proiettile sparato da una pistola. Ma la Hazet 36 è molto più facile da trovare, basta andare in un qualsiasi ferramenta.

Sergio tornò a casa, parcheggiò il suo motorino e lì fu aggredito da quattro uomini. Uno di questi restò a fare il palo. Gli altri lo colpirono alla testa a ripetizione con quella chiave inglese. Senza pietà. L’azione durò pochi minuti. Sergio rimase a terra, in un lago di sangue, ma ancora vivo. Per altri quarantasette giorni combatterà contro la morte, in un letto dell’ospedale Maggiore di Milano. Dopo una lunga e straziante agonia, martedì 29 aprile 1975, il suo cuore si arrese.

Il funerale di Sergio divenne l’ennesima riprova del comportamento vergognoso e spregevole di quell’Italia culla del cattolicesimo, guidata da trent’anni da un partito che fece della croce un volgare simbolo di potere. In quell’Italia in cui si discriminavano anche i morti venne negato un corteo funebre per questioni di ordine pubblico. Persino a ridosso dell’obitorio dove giaceva la salma di Sergio, vegliata fino all’ultimo dai parenti e coetanei del Fronte della Gioventù e del Fuan, fu apposto uno schieramento incredibile di forze di polizia in perfetto assetto da guerriglia: caschi con la visiera abbassata, manganelli, scudi, fucili. I funzionari della Questura milanese avevano un ordine ben preciso: il corteo funebre non si doveva fare.

La stampa di regime fece l’impossibile per evitare un cordoglio di massa attorno a Sergio rilasciando notizie distorte, orari falsi, 11204951_1579197515673994_1392174887745893925_ndichiarazioni inventate di sana pianta ed attribuite ai genitori: tutto pur di tenere le persone lontane dal funerale di un ragazzo di 19 anni assassinato e che evidentemente risultava scomodo pure da morto.

Sergio arriverà a bordo di un’auto delle pompe funebri scortata dalle macchine della polizia. Al passaggio della bara qualcuno getta dei fiori, qualcuno applaude, qualcuno piange. Intanto, c’è chi con il volto coperto da un fazzoletto rosso, mitraglia indisturbato con teleobiettivi tutte le persone intervenute al funerale di Sergio. Serviranno ad ingrossare i loro schedari per organizzare nuove spedizioni punitive come quella che ha portato alla morte di Sergio Ramelli.

La morte di un tempo aveva la falce, la morte di oggi ha pure il martello, lasciò la sua firma su quel muro di calce, proprio di fronte al tuo cancello”. In realtà, per Sergio Ramelli, la morte ha nelle mani una chiave inglese e il volto di un gruppetto di ragazzi, poco più grandi di lui, che lo massacrarono senza pietà. Vigliacchi fino alla fine. Forti del fatto che spaccare la testa a un fascista, non era un reato.

Roberto Derta

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5 comments

Massimo 29 Aprile 2015 - 4:22

Anzichè limitarci a deplorare tale modo di agire pensando di aver a che fare con esseri pensanti e non con bestie schifose chiamiamoli col loro vero nome: DELINQUENTI ! (ecc ecc ecc)

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Michele San Pietro 29 Aprile 2015 - 6:17

Questo Michele Sasso andrebbe querelato.

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roberto maggi 29 Aprile 2015 - 6:43

querelato? con questa magistratura….ma no,invece devo dire che e’propio fotogenico,questo valente pennivendolo,….mai dire mai,la vita ti riserva delle sorprese degli incontri inaspettati ed io ma penso tutti noi abbiamo alimentato nel corso degli anni tanta pazienza e tanta rabbia…..ad maiora michele!!!!!

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rino 1 Maggio 2015 - 3:59

La cosa che piu’ mi fa incazzare e inorridire che quei vigliacchi
bastardi non hanno fatto un giorno di prigione, pur avendoli condannati. Ma addirittura uno di quei bastardoni adesso è diventato anche primario a niguarda nel reparto psichiatrico
(un certo dott. scazza) Avete capito bene, quel vigliacco, che doveva essere messo sotto osservazione psichiatrica, è diventato
uno che da psicofarmaci a tutta birra.
ONORE A TE SERGIO RAMELLI.

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ELIO 1 Maggio 2015 - 11:42

L’immonda “Bestia Rossa” ed i suoi adepti, sono maestri nella falsificazione della verità.
ONORE A TE SERGIO RAMELLI il tuo sacrificio ci ha fatto diventare uomini.

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