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Coronavirus: se la politica si sottomette alla scienza

by La Redazione
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Roma, 5 apr – Da un mese e mezzo gli italiani sono sottoposti a una pressione altissima, con notizie allarmanti diffuse in ogni momento dai vari media e con un atteggiamento da parte del governo che porta all’esasperazione. Si sta assistendo ad una commedia-tragedia: la tragedia è dovuta al numero di morti per coronaviru, l’amara commedia è dovuta ai vari comportamenti che si riscontrano tanto a livello di esecutivo che di regioni.

Fino a quando durerà?

L’immagine dell’Italia che esce da questa situazione è triste ed è difficile per il cittadino non sentirsi preso per il naso. Si è adottato il sistema della pillola quotidiana o settimanale: ogni settimana l’inizio della cosiddetta fase 2 (il parziale ritorno alla normalità) viene spostato e così, si è partiti con il 3 aprile e si è arrivati, oggi, addirittura a metà maggio. Che fosse lunga, era chiaro a tutti dal principio. Eppure, anziché mettere le carte in tavola, “ufficializzare” che il periodo di chiusura si sarebbe protratto nel tempo, chi di competenza ha ben pensato di allungare di settimana in settimana i tempi, assumendo così un comportamento irritante ed esasperante. Perché è stato fatto? Forse perché si credeva di arginare maggiormente lo spirito di protesta che sorge spontaneo in momenti simili. Ma che senso ha un atteggiamento simile, se l’interlocutore sa già dove si vuole andare a parare?

L’irritazione e l’amarezza si fanno ancora più acuti quando si osservano le prove di forza di chi sta gestendo – o, meglio, tentando di gestire – la situazione: a fronte di dichiarazioni (abbastanza stereotipate, peraltro) di vicinanza alla popolazione, di controllo sulla situazione, di capacità interlocutoria dell’Italia con l’Unione Europa, si osservano spettacoli che fanno venire il latte alle ginocchia: l’Ue che ci prende a pesci in faccia, con dichiarazioni altalenanti che variano di giorno in giorno e promesse di liquidità che però per ora esistono solo sulla carta, assenza delle protezioni sanitarie necessarie non alla popolazione (sarebbe chiedere troppo) ma addirittura ai medici e agli infermieri, materiale di protezione (mascherine) bloccate non si sa dove dalla burocrazia, il sito dell’Inps che va in tilt perché incapace (grazie alla sua programmazione, sia ben chiaro) di gestire un alto numero di utenti, voci – per nulla confermate, anzi sospette – di un attacco hacker al sito che giustificherebbero le sue difficoltà e avanti di questo passo. Non dimentichiamo la prima miseria di questa emergenza, quello stato di cose che dovrebbe far vergognare chi comanda e chi ha comandato: l’assoluta insufficienza di un numero adeguato di posti in terapia intensiva. Ricordiamoci che l’impatto devastante che ha avuto il virus sull’Italia (e non solo sull’Italia, certo) è dovuto a un fatto, di cui, per adesso (ma aspettiamo che la tempesta sia passata), si è parlato troppo poco: il fatto che, per sessanta milioni di potenziali pazienti, ci sono – o, meglio, c’erano quando l’epidemia è scoppiata – cinquemila posti di terapia intensiva. La gravità di questo stato di cose è stata sottovalutata: ora abbiamo a che fare con un virus potente ma che presenta comunque un tasso di mortalità che non equipara la peste; ma cosa succederebbe se l’Italia subisse un attacco batteriologico?

L’emergenza diventa normalità

Ma se questo riguarda il passato, ciò che era, anche l’attuale stato di cose non fa che aumentare lo sconforto. L’Italia è ferma, chiusa in casa. Non solo: sono chiuse tutte le attività produttive, tranne quelle necessarie per rifornire gli scaffali dei supermercati di prodotti essenziali – cioè di cibo, giacché è persino difficile oggi acquistare prodotti di cartoleria: e come faranno gli studenti? E non è chiusa in casa da qualche giorno: lo è da più di un mese.

Insomma, l’emergenza – che, in quanto tale, dovrebbe essere un fenomeno straordinario e di breve durata – è diventata la normalità. E questa normalità ha ripercussioni devastanti di ampio raggio: le ripercussioni sulla psicologia dei cittadini sono e saranno profonde e gravi (molti esperti stanno lanciando l’allarme in questi giorni), specialmente a fronte del fatto che, una volta finito l’incubo della serrata, ci sarà l’incubo del lavoro, della disoccupazione dilagante, del caos burocratico ed economico – almeno, questo è lo scenario, se le cose saranno gestite con la malagrazia con cui sono state gestite sino ad ora. C’è quindi non solo l’apatia, generata da uno stravolgimento della quotidianità e dalla solitudine (che è ancora più pesante per chi è senza lavoro, per chi ha bisogno di assistenza, per chi soffre di disturbi psicologici o di dipendenza), ma anche l’inquietudine, la paura per un futuro che appare più nero di quanto non apparisse già prima dell’epidemia (perché, diciamocelo, non è che l’Italia fosse nel boom economico!).

Un governo ostaggio dei tecnici

Le conseguenze economiche della serrata, peraltro, sono gravemente sottovalutate; e, d’altronde, perché dovrebbero avere la priorità, se il governo è – o, almeno, tale appare – assoggettato completamente al parere di medici ed esperti, alcuni dei quali sembrano stare più in televisione che nei centri di ricerca? Visto la frequenza con cui questi esperti compaiono in TV, ci si potrebbe aspettare addirittura che il prossimo Dpcm sia comunicato da loro e non da Conte. Ma la responsabilità, si badi, non è dei medici e degli esperti, loro fanno il loro lavoro: la responsabilità è di chi comanda, che, al di là delle dichiarazioni, si lascia guidare da e ascolta unicamente i tecnici.

Le decisioni politiche – come tutte le decisioni strategiche, d’altronde – dovrebbero essere prese seguendo quello che potremmo definire il principio di equilibrio: di ogni opzione, bisogna valutare i pro e i contro, fare un bilancio ed effettuare la scelta. Questo atteggiamento non sembra prevalere, però, in chi di competenza. Conte ha ricordato, in una delle varie comunicazioni serali con cui dà a tutti la buonanotte, che la Costituzione sancisce come diritto fondamentale la tutela della salute. Si è dimenticato di dire che sancisce anche il diritto al lavoro: l’Italia non è un repubblica democratica fondata sul lavoro? Eppure, pare che il lavoro e la tenuta del sistema economico siano un fattore di secondo conto, a giudicare da come l’emergenza è stata gestita: anziché pensare a come coniugare la tenuta del sistema economico – che significa, detta in soldoni, garantire che non ci sia un aumento della disoccupazione paragonabile a quello che seguì alla crisi del ’29 – con la tenuta del sistema sanitario, si è ragionato con brutalità, senza mezzi termini: tutti chiusi in casa per il tempo che occorre e poi, per l’economia, si vedrà. Non era invece possibile organizzare, dopo un’iniziale, inevitabile, chiusura totale, una riapertura graduale? Forse c’è chi, ingenuamente, ritiene che sia possibile garantire la tenuta del sistema economico con una politica in stile assistenziale, distribuendo, insomma, liquidità sui conti correnti (un po’ come faceva il Joker interpretato da Jack Nicholson, quando lanciava banconote dal suo carrozzone). Chi la pensa così non ha capito che questo sistema può funzionare per uno, due, sei mesi, un anno, non per sempre. Per garantire la tenuta dell’economia – e dell’ordine sociale – è necessario creare posti di lavoro: e dove sarà il lavoro, se le aziende (si vedano soltanto i dati spaventosi relativi alla ristorazione e al turismo) chiudono perché non svolgono più attività? Ancora una volta, si ragiona con poca lungimiranza.

L’8 marzo Conte disse che si assumeva la responsabilità politica delle decisioni prese attraverso il Dpcm che aveva appena firmato. In realtà, però, questa affermazione è falsa: certo, il nostro Presidente si assume la responsabilità politica delle decisioni; peccato che queste decisioni collimino perfettamente con i cosiddetti consigli (o pareri) del comitato tecnico-scientifico. Quanto tali decisioni siano sue può essere oggetto di dibattito. Probabilmente l’influenza dei medici non sarebbe così pervasiva se, almeno, dopo la primissima fase dell’epidemia, cioè l’emergenza, le decisioni fossero state prese a livello di parlamento: invece, il parlamento è stato quasi completamente ignorato, altro che garanzie. Del Dpcm si è abusato: le forze parlamentari sono state sentite, un po’ come si sentono le notizie di gossip alla radio. Eppure, sono stati dati dei consigli più che apprezzabili. La sordità del governo rispetto alle istanze delle opposizioni e delle forze parlamentari – o, se non proprio la sordità, l’atteggiamento di sufficienza – ha generato molti malumori, che si cominciano a sentire e che faranno esplodere la polemica politica nei prossimi mesi. E non basta: il governo è stato addirittura incapace di confrontarsi in modo adeguato con le regioni sulle decisioni da prendere. Gli effetti di questa assenza di dialogo sono sotto gli occhi di tutti: caos nello stabilire le restrizioni, ritardi, problemi di interpretazioni, Dpcm che si susseguivano, iniziative personali di sindaci e governatori e, ultimamente, scontri frontali fra governatori di regione ed esecutivo.

L’assoggettamento della politica alla medicina avrebbe almeno un po’ di senso se quest’ultima sapesse di cosa si sta parlando. Non sembra invece all’altezza della situazione. Ci vuole poco per rendersene conto, anche perché sono gli stessi scienziati (alcuni) a dirlo: del coronavirus si sa ancora pochissimo, non si conosce bene il virus, non si sa se e quanto esso cambia nel tempo e nello spazio (il virus che ha contagiato la Germania potrebbe essere diverso da quello che ha contagiato l’Italia), non si sa se si rinforza, non se ne conoscono le modalità di trasmissione (non si sa nemmeno quanto tempo resta nell’aria). Ma allora, se la scienza è così indietro, se brancola nel buio, perché affidarsi ad essa completamente? Perché sottomettere completamente la decisione politica alle opinioni – perché di questo si tratta – degli scienziati? Tutto ciò che è stato fatto finora era davvero necessario? Era davvero necessario lasciare che le persone morissero da sole, impedire ai figli di seppellire i genitori? E se fosse stato inutile? Se in realtà non si fosse fermato niente? Se il virus si fosse diffuso? Con che faccia Conte e colleghi giustificherebbero queste sofferenze, che sono il risultato delle loro disposizioni?

Uno spera di poter rispondere che queste misure hanno avuto davvero effetto, che, in fondo, sono state il male minore. Ma ci sono dei dati preoccupanti: è notizia di pochi giorni fa che il 70% dei donatori del sangue di un paese in provincia di Lodi hanno scoperto di essere positivi asintomatici: se lo sono i donatori, perché non dovrebbe esserlo anche la popolazione, se si considera che i donatori sono soggetti alle stesse misure restrittive – misure restrittive che, proprio per la loro grande generosità, essi probabilmente rispettano con grande attenzione – del resto della popolazione? E che dire dei tamponi? Più se ne fanno, più contagiati asintomatici o con sintomi lievi si scoprono. E che dire di quegli studi che sostengono che in Italia ci sono milioni di contagiati? Non è stato sostenuto da fonte autorevole che il virus è arrivato in Italia addirittura all’inizio di gennaio? E l’aumento dei contagi non potrebbe essere determinato dal fatto, tanto banale quanto poco discusso, stranamente, che, a causa dell’assenza di protezioni adeguate, il virus si è diffuso negli ospedali, facendo di questi luoghi i centri di contagio privilegiati? Se le decisioni intraprese fossero state soltanto un palliativo, un secchio d’acqua su una foresta che brucia, come verranno giustificate le misure adottate? Cosa risponderanno i nostri governanti a chi ha perso il lavoro e a chi non ha potuto dare l’addio ai propri cari? Bisogna sperare che non siano stati commessi errori.

Edoardo Santelli

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