Roma, 20 giu – C’era una volta, a Brescia, una famiglia felice (padre, madre e due figli). Nel 2013 l’amore finisce e mamma e papà si separano consensualmente. La (ex) coppia collabora, il padre si sistema a 600 metri dall’ex moglie, accordandosi con i figli che entrambi vedranno i genitori, con relativo pernotto, a giorni alterni e fine settimana alternati. Il padre passa alla madre anche un buon contributo di mantenimento. Un caso esemplare di separazione, un modello di affido condiviso e collocamento paritario dei figli, di mantenimento diretto. Lui per andare incontro alle esigenze della donna, e dei figli, avendo più tempo libero e orari flessibili, è presente anche quando toccherebbe alla ex.
Tutto fila liscio per due anni fino a quando entrano in scena degli avvocati. I quali, allo scopo di agevolare economicamente e in tutti i modi possibili, la mamma loro cliente, pongono una serie di condizioni. Nel ricorso di separazione al tribunale, il legale di controparte addirittura chiede che il padre possa vedere i figli solo una volta la settimana, ed inventa che l’uomo dispone di redditi notevoli. Nella coppia la collaborazione lascia il posto agli attriti e iniziano i conflitti tanto che diventa necessario l’intervento di un giudice. Questi ordina una consulenza al termine della quale viene confermato l’affido condiviso, le frequentazioni ripartite in modo equilibrato, come la richiesta del figlio maschio di voler stare di più col papà.
Un padre devastato
Il verdetto che non soddisfa gli avvocati che avviano, nei confronti del padre, un’operazione di discredito che devasta l’uomo psicologicamente ed economicamente. La persecuzione giudiziaria intacca anche la relazione genitori/figli, in particolare fra la madre e il ragazzino: “Tu (mamma) chiami sempre l’assistente sociale perché non vuoi che io stia da mio padre e non vuoi che stia nemmeno con te”, scrive. Gli avvocati chiedono che il tribunale faccia intervenire i servizi sociali.
“Da quel momento un’intromissione scellerata di persone incapaci, pasticcione, superficiali e bugiarde rendono la loro vita un inferno, devastando emotivamente mio figlio”, racconta l’uomo. Attraverso relazioni piene di falsità mirate a demolire la figura paterna, i servizi sociali – con l’intervento anche della psicologa dell’Asst e della neuropsichiatria infantile – relazionano al giudice ingigantendo i fatti per rendere le situazioni suggestive e allarmistiche. Il magistrato prende per buono tutto, firma per la perdita della potestà del padre sul figlio e l’allontanamento del minore dalla famiglia.
La vita di un adolescente in frantumi
Come si può credere che per ricucire i rapporti compromessi fra una madre e suo figlio quest’ultimo debba essere spedito lontano da casa chilometri? Il decreto prevede infatti che il tredicenne venga tolto dai luoghi dove vive e dove ha i suoi punti di riferimento facendogli perdere tutte le sue amicizie. E’ costretto a cambiare scuola, professori, compagni. Vive isolato, interrompe gli interessi sportivi. Non può vivere con il padre, vedere la sorella, il nonno, i parenti, gli animali di cui si prende personalmente cura.
Dalla famiglia all’inferno della comunità
Il primo inserimento è in un dormitorio per adulti, poi in una comunità all’interno della quale alloggiano principalmente ragazzini stranieri. Non si riesce a dormire perché la notte si fa baccano, il luogo è fatiscente, i bagni sono inagibili. Gli operatori preparano nella cucina lurida pietanze con cibi scaduti. Il 13enne fotografa il degrado in cui versa la struttura e consegna il materiale ai Nas. Verrà spostato più lontano, ma passa dalla padella alla brace: qui gli ospiti fumano e spacciano. Questa situazione di illegalità viene segnalata alle forze dell’ordine insieme alle minacce che il minore riceve da parte dei più grandi. Una situazione paradossale con un minore costantemente impegnato tutelarsi dal “sistema della tutela minori”.
Passano i mesi. Il progetto degli assistenti sociali, che nel corso dei mesi hanno clinicizzato e psichiarizzato il ragazzino (colpevole di voler stare con il padre) non dà i risultati sperati. Il tredicenne è sempre in crisi con la madre che viene colpevolizzata di essere responsabile del suo ingresso in comunità. Scrive il ragazzo: “Intendo precisare di non voler più stare con mia madre ma di voler vivere la mia vita in compagnia e con l’aiuto di mio padre… perché solo con lui riesco a vivere in un clima di famiglia e d’amore”. A causa delle catastrofiche valutazioni l’equipe viene estromessa e nominata nuova consulenza tecnica. Nel frattempo il ragazzino scappa due volte dalla comunità. Il progetto comunitario ha fallito e i consulenti convengono che per il ragazzo sia meglio il rientro in famiglia, dal padre, e che per recuperare il rapporto con la madre basteranno delle frequentazioni regolari. Nel giugno del 2019 il ragazzo torna definitivamente a casa. Fine della storia.
Chi ci tutela da chi “tutela” i minori?
Per chiudere positivamente questa vicenda (uguale a migliaia di altre) sono stati necessari sei anni per trovarsi al punto di partenza. La superficiale valutazione degli operatori della “tutela” hanno costretto padre e figlio a vivere un calvario che ha rischiato di mettere in serio pericolo l’equilibrio psicologico del ragazzino. L’equipe che ha preso in carico il caso della famiglia bresciana, con assoluta incompetenza e sottostimando il primario interesse del minore ha proceduto cinicamente dimenticandosi delle linee guida (nazionali ed internazionali) delle convenzioni a difesa dei fanciulli. Il modus con cui quegli operatori hanno lavorato è riportato nelle numerose segnalazioni ed esposti che il padre ha presentato in Procura e all’attenzione del Garante per l’infanzia e l’adolescenza del Consiglio regionale della Lombardia.
Mentre la famiglia veniva dilaniata dalle disfunzioni del sistema, i costi sociali di questa gestione irresponsabile sono stati sostenuti anche dalla collettività, che ha profumatamente pagato le strutture per alloggiare il minore e il pagamento di tutti gli operatori. Il padre ha dilapidato i suoi risparmi (destinati ai figli) per difendersi dalle false accuse di ben sette legali, le relazioni Ctu e Ctp, il mutuo a suo carico esclusivo sull’abitazione familiare, di un nuovo affitto, le spese di mantenimento dei figli (non dovute in base all’art.337 ter).
Un esercito di burocrati
In questo lasso di tempo il padre ha inviato e ricevuto 800 mail, prodotto 4000 file tra fotosegnalazioni, documenti e burocrazia. Si è relazionato con avvocati, giudici, Tribunale dei minori, Tribunale ordinario, servizi sociali, neuropsichiatria infantile, psicologi e psicoterapeuti, centri psico sociali, Ctu e Ctp, scuola, comunità e case famiglia, amministrazioni comunali, ordini professionali, pubblici ministeri, forze dell’ordine, polizia e carabinieri, educativa domiciliare, garanti dell’infanzia, commissione parlamentare infanzia e adolescenza, redazioni giornalistiche. Sostiene il professore Gian Battista Camerini (esperto conoscitore dei limiti del sistema) che “intorno alla famiglia malata si assiste alla moltiplicazione di coordinatori genitoriali, pedagogisti di prossimità che invitano il sofferente nucleo verso percorsi di sostegno alla genitorialità di indimostrata e indimostrabile efficacia”.
Al termine di questa storia, dopo centinaia di casi tutti uguali con soggetti esterni che entrano nella vita delle persone e la distruggono per imperizia, negligenza ed imprudenza, dopo tutti questi figli strappati “in nome del loro superiore interesse”, come si possono sanare queste disfunzioni? Certamente rimettendo la responsabilità delle decisioni in capo al magistrato, che non deve limitarsi a valutare esclusivamente la relazione dei servizi sociali, oltre che ridimensionare lo strapotere dei professionisti della tutela. Molti dei quali, godendo di gioia maligna, affollano i tribunali minorili come sciacalli.
Antonietta Gianola