Messina, 9 dic – Organizzavano falsi matrimoni allo scopo di far ottenere permessi di soggiorno a cittadini extracomunitari, per un giro di affari centinaia di migliaia di euro. E’ quanto emerso dalle indagini condotte dalla Dda di Messina che hanno portato alla luce l’esistenza di due organizzazioni, da tempo attive a Messina e con ramificazioni in Marocco, le cui redini erano tenute da due cittadini marocchini. Lo riporta La Sicilia.
Sedici arresti per i falsi matrimoni
Sono sedici le persone arrestate facenti parte dei due gruppi criminali che per ogni matrimonio riuscivano ad incassare circa 10mila euro. Il pagamento avveniva in contanti o attraverso money-transfer, con 2-3mila euro come compenso per la falsa sposa, solitamente reclutata tra italiane indigenti. Sono state proprio le dichiarazioni rese da una serie di cittadine italiane a fare insospettire la Gdf al punto da aprire un’inchiesta. Sospetti suffragati ulteriormente da strane coincidenze affiorate analizzando alcuni matrimoni «misti»: stessi testimoni, stesse parentele tra testimoni e sposi.
L’organizzazione
L’organizzazione era curata in ogni dettaglio: dai viaggi in Marocco dei finti sposi, al disbrigo delle pratiche burocratiche, comprese la separazione e il divorzio. Il gruppo era strutturato su più livelli. Il primo era costituito dagli incaricati – tutti di nazionalità marocchina – al reclutamento dei finti sposi e al disbrigo delle pratiche burocratiche per il matrimonio, compreso l’ottenimento della documentazione per i cittadini extracomunitari. La banda era coadiuvata da due complici in Marocco. Questi predisponevano i documenti necessari alla celebrazione dei matrimoni presso il Consolato generale d’Italia a Casablanca. Al secondo livello del gruppo malavitoso operavano i testimoni di nozze e gli interpreti. Al terzo livello, cioè alla base della piramide, un fitto sottobosco di soggetti italiani – principalmente donne in stato di indigenza – che prima venivano reclutate per le nozze, e poi per ingaggiare altri immigrati interessati ai falsi matrimoni.
Le pecore
Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che gli operanti nell’organizzazione erano soliti definire le donne con il poco lusinghiero epiteto «in codice» di «pecore». «C’è un signore che mi ha chiesto se c’è qualche pecora», era una frase ricorrente.
Cristina Gauri