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Jihadisti e terroristi arrivati a bordo dei barconi: i dati del Viminale (prima parte)

by Francesca Totolo
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Roma, 15 apr – Il terrorista di Nizza, il tunisino Brahim Aoussaoui che ha sgozzato tre persone nella chiesa di Notre-Dame, e il terrorista della strage di Berlino, il tunisino Anis Amri che uccise dodici persone, non sono gli unici jihadisti ad essere arrivati in Italia a bordo dei barconi degli immigrati. Quante volte i politici italiani hanno sentenziato “I terroristi non arrivano sui barconi”, in primis Paolo Gentiloni e Matteo Renzi, ovvero i presidenti del Consiglio che, non gestendo il flusso dell’immigrazione clandestina, hanno permesso a 650mila immigrati, spesso senza documenti, di sbarcare indisturbatamente sulle coste italiane. Per evidenziare l’arrivo di molti islamisti sui barconi, peraltro fatto già documentato dall’Interpol, e per documentare il pericolo radicalizzazione nelle moschee e nelle carceri italiani, abbiamo analizzato i dati sulle espulsioni per motivi di sicurezza dello Stato del Viminale, pubblicati dal 2015 all’8 aprile del 2021.

Le espulsioni per motivi di sicurezza dello Stato

Dal 2015 all’8 aprile del 2021, sono stati 544 gli stranieri espulsi dal territorio italiano per motivi di sicurezza dello Stato.

Dei 158 stranieri espulsi con decreti emessi dal ministro dell’Interno, 56 erano tunisini, 52 marocchini, 16 egiziani, 7 kosovari, 6 albanesi, 5 pakistani, 5 algerini, 3 macedoni e 2 siriani.

Dal 2003, sono stati espulsi dal territorio italiano 36 imam per motivi di sicurezza dello Stato, perché legati ad ambienti jihadisti e/o impegnati nel reclutamento di miliziani. Diversi sono stati gli stranieri espulsi perché in carcere avevano assunto la funzione di imam fondamentalista. Proprio la radicalizzazione è una delle emergenze del sistema carcerario italiano. Sono numerosi, infatti, gli stranieri che sono stati espulsi in seguito alle attività di monitoraggio avvenute durante la detenzione.

Le centrali della radicalizzazione

Nelle moschee, spesso clandestine, e nei centri culturali islamici, la fede può trasformarsi in estremismo a causa della propaganda jihadista di alcuni “cattivi maestri”, ovvero imam radicalizzati che, durante le preghiere, esortano i credenti alla jihad e all’arruolamento nelle fila dei gruppi terroristici. L’imam marocchino della moschea di San Donà di Piave, Abd Al-Barr Al-Rawdhi, aveva pubblicamente dichiarato durante un sermone: “Allah contali a uno a uno e uccidili fino all’ultimo. Non risparmiarne neppure uno. Fai diventare il loro cibo veleno, trasforma in fiamme l’aria che respirano”. Al-Rawdhi è stato poi espulso nell’agosto del 2014. Un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Bari ha portato all’arresto di Hosni Hachemi Ben Hassen, imam di Andria, e di altri tre tunisini. Tra il 2008 e il 2010 il gruppo, sotto la guida dell’imam tunisino, avrebbe studiato in rete le tecniche per costruire ordigni esplosivi, addestrandosi sull’Etna all’uso delle armi. Attraverso il call center gestito dal presunto capo dell’organizzazione avveniva l’indottrinamento finalizzato anche al reclutamento di miliziani da avviare in Afghanistan, Yemen, Iraq e Cecenia. Nel luglio del 2016, la sentenza della Cassazione annullò le condanne per associazione sovversiva finalizzata al terrorismo internazionale di matrice islamica e rimesso tutti gli imputati in libertà. La Cassazione rinviò alla Corte d’assise d’appello di Bari di rideterminare la pena per i reati di istigazione all’odio e alla violenza razziale. Per l’imam Hosni Hachemi Ben Hassen, un mese dopo, arrivò il decreto di espulsione firmato dall’allora ministro degli Interni, Angelino Alfano.

L’8 settembre del 2016, veniva espulso dall’Italia l’imam marocchino di Treviso, Fagrouk Hmidane. Arrivato in Italia nel 1998, all’età di quindici anni per raggiungere il padre, Hmidane è l’esempio delle nefaste conseguenze che potrebbe avere l’approvazione dello ius culturae. Infatti, nel 2003, il marocchino conseguì il diploma presso un istituto tecnico, ottenendo anche una buona valutazione. Nonostante questo e un lavoro ottenuto immediatamente dopo la licenza superiore, Fagrouk Hmidane iniziò un percorso di radicalizzazione. Dopo dieci anni di lavoro e il nullaosta per la cittadinanza, l’imam marocchino non si presentò al giuramento sulla Costituzione italiana. Il comportamento insospettì la polizia che iniziò ad indagare sul suo conto, scoprendo così la radicalizzazione di Hmidane. Nel gennaio del 2017, è stato espulso l’imam marocchino Imadeddine Guenfoud, in Italia con un permesso di soggiorno per motivi familiari e residente a Padova, dove aveva fondato un centro culturale islamico frequentato da soggetti attestati su posizioni salafite e wahhabite, vicino all’imam Sofiane Mezzereg della moschea di Schio, in provincia di Vicenza, già espulso dall’Italia nel 2015. Quest’ultimo, un algerino di 36 anni, predicava l’islam radicale ai bambini durante le lezioni sul Corano.

Nell’ottobre del 2017, è stato espulso per motivi di sicurezza nazionale il kosovaro Idriz Idrizovic, imam itinerante in Lombardia. Gli inquirenti ricostruirono i continui rapporti tra Idrizovic e Idriz Bilibani, arrestato nel settembre 2014 dalla polizia kosovara poiché coinvolto in attività terroristiche, e Husein Bosnic, predicatore ed ex appartenente alla brigata “Al Mujahid” presente in Bosnia durante il conflitto balcanico di fine anni ’90 e finito in manette nel settembre del 2014 nel corso di un’operazione antiterrorismo poiché ritenuto parte di un’organizzazione impegnata nel reclutamento di combattenti da inviare verso i teatri di guerra siriano ed iracheno. Nel 2016, Idriz Idrizovic si era recato in Germania dove aveva frequentato centri islamici e moschee tanto da guadagnare il posto da imam di un centro culturale di Dortmund. Al momento di trasferirsi, dopo qualche mese, le autorità tedesche lo hanno respinto in quanto considerato “predicatore d’odio salafita, coinvolto nella radicalizzazione di combattenti stranieri per lo Stato Islamico”.

Nell’ottobre del 2018, è stato espulso dall’Italia perché “incitava al terrorismo islamico” l’imam egiziano di Milano, Ahmed Elbadry Elbasiouny Aboualy, in Italia dal 2005 con permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. Nel 2009, Aboualy aggredì Daniela Santanchè durante una manifestazione contro il velo integrale per le donne musulmane. Secondo il Viminale, l’imam avrebbe intrattenuto “legami con alcuni soggetti pericolosi come Mohamed Game“, l’autore dell’attentato alla caserma dell’Esercito Santa Barbara di Milano. Nel 2019, l’imam Mohy Eldin Mostafa Omer Abdel Rahman, presidente egiziano dell’associazione culturale islamica “Al Dawa” di Foggia, fu condannato a 5 anni di reclusione in Corte d’Assise, perché ritenuto responsabile dei reati di terrorismo internazionale e apologia di terrorismo. Il 60enne avrebbe indottrinato al martirio una decina di bambini durante le lezioni di religione. L’inchiesta era partita nel 2017 nel 2017 dopo l’arresto del militante ceceno dell’Isis Eli Bombataliev, appartenente al gruppo terroristico “Emirato del Caucaso”. Al fermo di Abdel Rahman si era giunti in seguito alla segnalazione di operazioni sospette compiute dal cittadino egiziano e da sua moglie, Vincenza Barbarossa, di 79 anni, che avevano evidenziato una disponibilità economica dei due sproporzionata rispetto ai redditi dichiarati. Le indagini svelarono le reali attività dell’imam egiziano: propaganda jihadista fatta nei confronti di adulti e bambini. L’indottrinamento dei più piccoli avveniva attraverso video che mostravano immagini dal forte contenuto violento, con piccoli jihadisti intenti a far vedere come uccidere uomini adulti, usare armi e fabbricarle. In seguito all’inchiesta, il 5 maggio del 2018, un cittadino marocchino, clandestino in Italia, fu espulso perché stretto collaboratore di Abdel Rahman. L’irregolare era presente anche agli incontri di propaganda jihadista che l’imam riservava ai bambini di seconda generazione.

Ultima espulsione di imam in ordine di tempo è quella del marocchino Merrouane Grine, residente a Padova e legato al luogo di culto “Al Hikma”, avvenuta il 3 gennaio del 2020, con le accuse di aver fatto proselitismo, di aver inneggiato al califfato di Al Baghdadi e di aver espresso sostenuto nei confronti dei miliziani jihadisti in Siria. Le indagini delle autorità italiane portarono alla luce elementi definiti “sintomatici di una visione violenta dell’islam da parte dell’uomo, antioccidentale, antisemita e di sottomissione delle donne”.

La centrale dei jihadisti di Grosseto

Un’altra centrale islamista è stata rintracciata in provincia nel 2018 a Grosseto e ha portato all’espulsione di due albanesi. Le indagini partirono nel 2014 in seguito alla partenza per la Siria di Maria Giulia “Fatima” Sergio e del marito albanese Aldo Kobuzi. I due coniugi si unirono all’Isis, dopo un percorso di radicalizzazione avvenuto in Italia. Nel maggio del 2018, è stato espulso Baki Kocu, zio di Aldo Kobuzi, che era già stato arrestato in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Dda di Milano nell’ambito dell’operazione “Martesa” come fiancheggiatore di una cellula eversiva dedita all’indottrinamento ed al reclutamento di terroristi da inviare negli scenari mediorientali. Nel 2016, Kocu era stato condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale. Nel settembre del 2018, un’altra reclutatrice dello Stato islamico, Arta Kacabuni, la sorella di Baki Kocu e zia di Aldo Kobuzi, è stata espulsa dal territorio italiano. Condannata a 3 anni e 8 mesi dal tribunale di Milano con l’accusa di terrorismo per adesione all’Isis, la Kacabuni era inizialmente stata messa agli arresti domiciliari nella sua casa di Scansano, ma il 17 agosto 2017 la donna veniva nuovamente trasferita in carcere dopo essere stata scoperta a intrattenere contatti con persone che non poteva frequentare. Condannati a 10 anni per terrorismo internazionale, rimangono tuttora latitanti Maria Giulia Sergio, Aldo Kobuzi, Donia Coku e Serjola Kobuzi (madre e padre di Kobuzi) e la reclutatrice Bushra Haik, cittadina siriano-canadese, trasferitasi in Arabia Saudita e poi sparita. Tutti i membri della famiglia Sergio sono stati arrestati e condannati nell’ambito della medesima inchiesta. I genitori sono entrambi deceduti, mentre la sorella Marianna è attualmente reclusa in carcere.

Gli accusati per terrorismo non espulsi dall’Italia

Nell’agosto del 2016, è stato arrestato Mahmoud Jrad, siriano di 23 anni entrato clandestinamente in Italia e residente a Varese che, al momento del fermo, stava organizzando un viaggio in Siria per unirsi al gruppo terroristico Jabhat Al Nusra, come in precedenza avevano fatto altri siriani residenti in Lombardia, Haisam Sakhanh, Ammar Bacha, MC e AC. Mahmoud Jrad era stato fermato nell’ambito di un’indagine della procura di Genova che coinvolgeva altre persone, tra cui suo fratello, tre imam (un albanese e due marocchini) e due marocchini che frequentavano moschee salafite. Difeso dall’avvocato Luca Bauccio, il legale della famiglia dell’imam Nour Dachan, Jrad è stato condannato con rito abbreviato a 3 anni di reclusione per terrorismo internazionale, ma non è stata disposta l’espulsione dal territorio italiano al termine della pena. Nel febbraio del 2020, è stato espulso dall’Italia per motivi di pericolosità Bledar Breshta, l’imam albanese di Sampierdarena che, prima dell’arresto, aveva ospitato Mahmoud Jrad e che, secondo gli inquirenti, avrebbe raccolto soldi da inviare ai miliziani jihadisti.

Non solo Mahmoud Jrad: Luca Bauccio è stato il difensore dell’imam egiziano Abu Omar, prelevato a Milano da un commando di agenti della Cia perché sospettato di terrorismo internazionale, del reclutatore jihadista marocchino Abderrahmane Khachia, fratello di Oussama, morto in Siria dopo essere stato espulso dall’Italia per sospetta apologia di terrorismo (nel 2016 anche i genitori sono stati espulsi), e dell’imam di Varese Abdelmajiid Zergout, arrestato per aver partecipato ad atti di terrorismo in Marocco, Paese che aveva già emesso un mandato per l’estradizione con l’accusa di terrorismo. Lo stesso Bauccio ha assistito diverse comunità islamiche “contro i casi di discriminazione basate sul culto religioso”, intentando azioni legali nei confronti di amministrazioni comunali che non avevano concesso l’autorizzazione all’apertura di moschee: “Alcune amministrazioni, issando la bandiera del no alla moschea, formalizzano di fatto un atteggiamento discriminatorio e islamofobico, che si formalizza come un comportamento illecito”. Secondo Luca Bauccio, la minoranza islamica è stata “trasformata in un imputato a seguito delle vicende internazionali legate al terrorismo, facendo sorgere una tendenza pericolosa, con partiti politici e movimenti che fanno della islamofobia un argomento di propaganda”.

Dopo aver già scontato una condanna a 10 anni inflitta dal Tribunale di Milano per terrorismo internazionale, nel dicembre del 2015, è stato arrestato a Bari l’iracheno Majid Muhamad per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell’ambito di una indagine sul terrorismo di matrice islamica.  Condannato ad altri 2 anni e 6 mesi di reclusione, Muhamad facilitò l’ingresso in Europa di soggetti collegati alla pericolosa cellula terroristica italiana del gruppo Ansar Al Islam. Dopo la prima condanna a 10 anni di carcere, l’iracheno vinse il ricorso presentato al Tribunale di Cosenza contro un provvedimento di espulsione emesso alcuni mesi prima dal prefetto della stessa città calabrese. “Lo scorso 12 luglio, avevo firmato la sua espulsione dall’Italia, visto che gli investigatori lo ritenevano un pericoloso esponente dell’ala anarco-insurrezionalista di Bologna. Ma U.D., nigeriano classe 1994, condannato per detenzione di materiale idoneo alla fabbricazione di esplosivi con tanto di manuale di istruzioni, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e la sua espulsione è slittata”, così scriveva nel luglio 2019 l’allora ministro degli Interni Matteo Salvini. Sempre la Corte europea, nel 2008, aveva imposto all’Italia di non espellere in Tunisia Nassim Saadi, sospettato di terrorismo, “per il rischio che una volta in patria potesse essere torturato o sottoposto a trattamento degradante o disumano”. A tal proposito, con una sentenza del 2019, la Corte Ue ha vietato il rimpatrio di ex rifugiati, anche per motivi di sicurezza dello Stato, se nel Paese di origine questi rischiano la tortura o la vita. Secondo i giudici di Lussemburgo, la decisione di revocare o rifiutare lo status di rifugiato non permette quindi di togliere tale status, né i diritti che derivano dalla Convenzione di Ginevra, o di rimpatriare l’extracomunitario se ci sono “fondati timori” che sia perseguitato nel suo Paese di origine.

Francesca Totolo

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