Gilles Villeneuve aveva lo sguardo da guascone, non vinse molto, ma sfidò chiunque e amava ripetere “a parità di macchina, se voglio che uno mi stia dietro, state tranquilli che ci resta”. Non alzò il piede dall’acceleratore nel gran premio di Digione, Francia 1979, quando tenne testa alla Williams di Arnoux, dando vita a un giro finale memorabile, tre minuti e mezzo entrati di diritto nella storia dell’automobilismo. Non alzò il piede durante le prove del Gp del Belgio, nel 1982, quando si schiantò a 228 km/h mentre cercava, ancora una volta, di tenere dietro gli altri.
Ayrton Senna aveva classe, talento e uno sguardo triste. Aveva negli occhi, forse, la consapevolezza del suo destino, del tributo da pagare alla fortuna, al successo, all’essere diventato mito già in vita. Aveva lo sguardo triste quel primo maggio del 1994, il fine settimana maledetto di Imola, iniziato con il terribile incidente di Barrichello, proseguito con la morte, nelle prove del sabato, di Roland Ratzenberger, e poi l’incidente in partenza che vide la gomma della Lotus di Lamy volare oltre le tribune, tra il pubblico, ferendo nove persone e mandandone una in coma. Presagi di sventura si sarebbe detto un tempo, ma nessuno osò interrompere il gran circo della Formula1, c’era un ultimo appuntamento da rispettare alla curva del Tamburello, alle 14:17, quando lo sguardo triste di Ayrton Senna diventò quello di milioni di spettatori sparsi in tutto il mondo.
Michael Schumacher ha uno sguardo limpido, una passione per la vita, per la velocità, per le sfide, che contamina la freddezza teutonica con l’entusiasmo latino. Non vogliamo porre domande sceme, aspettiamo solo notizie da Grenoble, con l’augurio che lo sguardo limpido di Schumi possa presto rinfrancare la sua famiglia. La Formula1 ha già i suoi miti, può restituirci un “semplice” campione.
Francesco Pezzuto