Roma, 17 mar – Con la proclamazione del 17 marzo 1861 nasceva ufficialmente il Regno d’Italia. In attesa che anche il Veneto, parte del Lazio (Urbe compresa) e – successivamente – le terre irredente di Trento e Trieste si unissero nuovamente alla madre patria, il Risorgimento prendeva forma reale. Fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Esiste la prima solo se ci sono i secondi. E, soprattutto, se manteniamo vive le nostre divinità. Ma oggi, ovvero a 163 anni dall’unificazione, qualcosa sembra essere andato storto. Intossicate dall’occidentalismo, le narrazioni contemporanee hanno perso del tutto l’investitura del sacro. Nessuna forza attiva all’orizzonte che possa costruire nel tempo. Urge quindi un nuovo mito, condizione necessaria per tornare a fare gli italiani.
Fare (nuovamente) l’Italia
Demografia, cultura, questione energetica, sfide della tecnica, lavoro. Non c’è partita che il nostro paese debba affrontare che non presenti serie criticità. Torniamo sulla massima dazegliana. Cosa occorre oggi per fare l’Italia? Risposta semplice ma, allo stesso tempo, estremamente complicata. Quindi da cogliere senza tentennamenti: qualcuno che sappia dare una direzione, qualcosa veramente capace di ordinare la realtà. Quindi di raccontarla.
Roma, Medioevo, Rinascimento: in ogni sua curva, fin dallo sbarco di Enea, la spiralità della storia ha trovato la più ferrea volontà di tramandare quel significato – forse irrazionale, o forse no – che risponde al nome di Italia. Un popolo magnificamente descritto sul travertino del Colosseo Quadrato. La giovane turrita, bella e sontuosa, che sa ripagare con l’abbondanza chi incarna il suo destino lucente. Volontà di potenza, secondo Nietzsche.
Un nuovo mito: cosa vuol dire essere italiani?
Homo faber fortunae suae. Sotto questo cielo non esistono terre promesse né tantomeno universali salvatori dell’umanità. Nessuna linea retta: con buona pace del tanto in voga ambientalismo di plastica il mondo non finirà a breve. Insorgere contro il fatalismo, seguendo la lezione di Venner. Questo è lo spazio degli avventurieri e degli eroi, di amori disperati e cuori rivoluzionari. Dove si trova linfa vitale anche da elementi all’apparenza inconciliabili: è l’Italia ghibellina che ospita la Santa Sede. Sono gli ottomila campanili, con altrettanti particolarismi locali, che si riconoscono in un’entità superiore. Qui il mito si fonde con la storia, diventando così una cosa sola – a tal proposito si consiglia caldamente la lettura del libro “Giacomo Boni”, scritto per i tipi di Altaforte dal professor Consolato.
Guardare al passato per attaccare il futuro. Tornare metaforicamente nel luogo dei padri, così come Enea, ma considerandolo come terra dei figli. L’Italia, per dirla con Carducci, da far risorgere “nel mondo per sé e per il mondo” con “idee e forze sue”. Così, sempre con le parole del letterato, da “esplicare un officio suo civile ed umano, un’espansione morale e politica”.
Sfondare le porte misteriose dell’impossibile
Romanizzare ogni terra conosciuta o, come Colombo, trovare nuove vie, poco cambia. Oppure, alla Marco Polo, raccontare queste rotte prima di altri. Pensata dall’alba dei tempi, disegnata sotto le insegne imperiali e sognata nei versi dei poeti, l’Italia è stata “fatta” il 17 marzo 1861. Pochi anni dopo Giovanni Pascoli tracciava di nuovo la via ai propri connazionali, esortandoli a guardare il cielo. Lassù dove “vi sono anche le aquile”. Quindi – aggiungiamo noi – ancora più in alto. Fino alla nostra origine e al nostro domani. Venere e Marte, marinettiana sfida alle stelle. Gli stessi futuristi d’altronde esortavano a sfondare le porte misteriose dell’impossibile: c’è davvero qualcosa di più culturalmente mobilitante?
Marco Battistini