Dalla sua umile postazione Ada Negri inizia a cadenzare i passi in endecasillabi, a scandire le giornate su basi metriche. Il terreno in cui è piantata pare povero a quelli dei piani di sopra, ma in realtà è ricchissimo. Terra rossa e scura, quasi nera, dove si mischia il sangue degli ultimi e il fumo della fabbrica dove la madre annerisce a giornate per sperare in un’ora di luce. Nel buio di quella trincea Ada Negri diventa poetessa-soldato. Carica la penna come un fucile con parole salate e dure. Accende la miccia della propria bocca con la fiamma di chi arde dentro.
Io non ho nome.
Io son la rozza figlia
dell’umida stamberga
plebe triste e dannata è mia famiglia
ma un’indomita fiamma in me s’alberga.
Grazie a quella fiamma Ada Negri uscirà dalla trincea per conquistare il suo pezzo di cielo, compiendo quel movimento all’assalto che diventerà il mito fondativo del Novecento e nel quale la poetessa sarà tra i primi a salire. Continua a studiare grazie ai sacrifici della “Madre operaia” e diventa maestra. Di giorno, perché la notte scrive quello che la fiamma le detta. Inizia a sparare i suoi versi sui giornali e nel 1892 arriva già la consacrazione: pubblica Fatalità con Treves, l’editore di D’Annunzio. Sarà una palla di cannone:
O grasso mondo di borghesi astuti di calcoli nutrito e di polpette,
mondo di milionari ben pasciuti e di bimbe civette;
o mondo di clorotiche donnine che vanno a messa per guardar
l’amante, o mondo d’adulterii e di rapine e di speranze infrante;
e sei tu dunque, tu, mondo bugiardo, che vuoi celarmi il sol
degl’ideali, e sei tu dunque, tu, pigmeo codardo, che vuoi tapparmi l’ali?…
Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto: tu menti e pungi e mordi, io ti
disprezzo: dell’estro arride a me l’aurato incanto, tu affondi nel lezzo.
Il pubblico e la critica però mangiano ingordi quell’ostia dura ma saporita e Ada Negri si ritrova, a ventitre anni, insegnante di scuola superiore a Milano per decreto ministeriale. Da questo momento la poetessa spiega le vele e compie il suo vasto periplo. Sotto la Madunina diventa la “vergine rossa” e le sue poesie “del quarto stato” catturano e respingono allo stesso tempo, coprendola di popolarità. Sarà respinto Benedetto Croce, che dall’interno delle sue parentesi non riuscirà ad accettare il successo della Negri, sino a dichiararla “impoetica”. Saranno attratti invece Turati e Mussolini, che le saranno compagni di viaggio. Ma allo scoppio della Prima guerra mondiale – nel frattempo Ada viaggia, si sposa, diventa madre, si separa – non avrà dubbi su chi tirare giù dalla torre. Sceglie la guerra, la rivoluzione, Mussolini. Frequenta la redazione del Popolo d’Italia e Margherita Sarfatti, continua a scrivere e pubblicare, ottiene spazi sui giornali, ottiene spazi sugli spartiti che mettono in musica le sue poesie.
Nonostante la sua popolarità e il suo primato fra le poetesse italiane, nonostante la potenza dei suoi versi che pescano nelle profondità del mare sociale e dell’amore, che scalano le vette dell’intimismo e dello spirito, nonostante il suo verso libero così moderno, così ancora necessario, Ada Negri dopo la Seconda guerra mondiale finisce nel pantheon dismesso delle divinità fasciste. Quello con su scritto non entrare, damnatio memoriae. Il tempo e la purga hanno poi consentito un parziale recupero ufficiale, nonostante che “la poetessa d’Italia” i suoi lettori non li abbia mai persi. Quel pubblico più vero della critica, fra cui troviamo anche Alda Merini, ‘scoperta’ proprio dalla cugina di Ada Negri e quindi legata a doppio filo, biografico e poetico, alla quercia che non crolla al vento, e nemmeno alle sante inquisizioni.
Ai torturanti guai
opposi l’energia di cento vite
nulla piega il mio fronte e il mio pensiero
Io son forte, è vero
io son la quercia che non crolla al vento.
Simone Pellico
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