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“Anche vinto il nemico è qualcuno”: a settant’anni dalla morte di Cesare Pavese

by La Redazione
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cesare pavese

Roma, 10 mag – “Il diarista deve nascondere l’anima e diffondere delle verità senza mai mentire” (Bino Sanminiatelli). Beati i tempi in cui si potevano leggere sulle riviste di letteratura e di politica degli articoli che, oltre a soddisfare la curiosità del lettore, ne diventavano sua parte integrante. Nella rivista “Lo Stato”, diretta a suo tempo da Macello Veneziani, in uno dei suoi articoli dedicati a Cesare Pavese riporta alcune parole che lo scrittore aveva dedicato ai caduti della Repubblica Sociale Italia.

Sono trascorsi settant’anni dalla sua morte e la fama letteraria di Pavese non si è mai arrestata. Le sue opere si trovano nelle librerie, come pure sulle bancarelle dell’usato. Nell’articolo “Cesare Pavese la verità scomoda” Marcello Veneziani riporta all’inizio questo pensiero preso dal libro “La casa in collina”: “Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi lo ha sparso. Guardare certe morti è umiliante. Non sono più faccende altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potemmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Sono parole cariche di una  forza umana che va oltre. Non è da tutti commuoversi davanti al proprio nemico, avere rispetto per quelli che sono morti e che hanno combattuto una guerra su fronti diversi. I partigiani a settantacinque anni dalla fine della guerra non hanno invece che una sola verità incontestabile: la loro. Sono rimasti molto lontani dalla parola pacificazione che più volte è stata proposta dai vinti. Anche il nemico più duro merita rispetto, anche se ha combattuto per una idea che può non essere la propria.

Alla ricerca di un cielo amico

Cesare Pavese è stato uno scrittore che ci fa comprendere la vita. Il suo ritorno al paese, Santo Stefano Belbo, il ritrovare i vecchi amici che aveva lasciato per ricostruire qualcosa di vero, era l’ultima possibilità di andare avanti. Fuori dal luogo natìo aveva trovato un buon lavoro, la fama come scrittore, ma non era riuscito a ritrovare quel cielo amico. L’amore per la terra dei padri, il cui profumo con la lontananza è sempre molto intenso lo fece ritornare.

Il libro “La casa in collina” non può mancare nella biblioteca di chi vuole approfondire la letteratura del novecento. Come uomo, Pavese è sicuramente una persona che ha patito cercando l’amore della sua vita. Un amore che forse lo ha portato a compiere quel gesto così difficile il 27 agosto del 1950, in una sera, in un albergo a Torino. Chiese a se stesso di chiudere la battaglia più dura. In quel momento, se avesse trovato un amico, forse non avrebbe compiuto quel gesto.

Cesare Pavese: la sincerità dell’artista

La fama di Pavese come scrittore si era estesa in ogni parte d’Italia. Nel suo diario aveva scritto delle frasi che forse indicavano quella strada che doveva percorrere: L’artista è sempre sincero con se stesso, pena il fallimento dell’opera”. Cesare Pavese a questa sincerità ha dato ascolto.

Davide Lajolo, uno scrittore che lo ha conosciuto bene, su di lui ha scritto delle pagine profonde raccolte nel libro “Il vizio assurdo”. Un‘opera che mostra la storia di Pavese. Lo scrittore Francesco Grisi in un libro “Incontri in libreria” raccoglie i profili di molti scrittori che ha conosciuto, e dedica alcune pagine a Pavese: “Forse nel ricordo del suo Piemonte dove i contadini la sera accendono i fuochi, spesso ci parla dei falò. In una poesia scritta il 30 ottobre 1945, ad esempio, ci dice che: – Sarà dolce tacere. Sei la terra e la vigna. Un acceso silenzio brucerà la campagna come i falò la sera. –  E in un suo libro vi è un lungo racconto sulla ”Luna e i falò”. Stano destino anche questo. Pavese non avendo trovato un “Falò di sera” per illuminare la strada si è perso: è rimasto nel buio, in una notte senza stelle”. Cesare Pavese, in quella sera di fine estate, cercava forse una mano amica a cui donare il suo cuore, un fuoco che gli riscaldasse il cuore vinto e solitario.

Emilio Del Bel Belluz

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