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Capire il terrorismo attraverso lo scontro tra fede e libertà. La sfida di Piras

by La Redazione
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Roma, 4 set – Pier Luigi Piras, nativo di Bosa e cresciuto a Cuglieri, entrambi centri della provincia di Oristano, docente di storia e filosofia al Liceo Classico di Alghero, è l’autore di La sfida si rinnova. Lo scontro fra fede e libertà nelle logiche del terrorismo (Cavinato Editore International, Brescia 2017), interessante studio, sua opera prima, sui rapporti tra terrorismo e cultura. L’insieme di riflessioni contenute nel libro costituisce una sicura testimonianza della cultura vasta e poliedrica dell’autore: “I temi sono tanti – spiega Piras – come in un intreccio: c’è uno spaccato della politica internazionale nell’età contemporanea, c’è la pace o, meglio, il pacifismo e la guerra, il terrorismo di matrice arabo-islamica, l’Europa, il caso Italia, le gravi ferite inferte all’Italia fra gli anni Settanta ed Ottanta, il caso Israele, il Sud contro il Nord, l’Occidente che si suicida. Ma c’è soprattutto lo scontro fra la Fede e la Libertà”. Lo scontro fra la Fede e la Libertà è per l’autore lo snodo filosofico fondamentale di tutto il lavoro. Per Piras, è assurdo cercare di comprendere, ad esempio, le azioni dei palestinesi stessi a prescindere dalla loro religione.

Un’altra tematica che è una chiave di lettura importante del mondo contemporaneo è il problema dell’identità o meglio della negazione dell’identità: “Per alcuni decenni ci siamo sentiti ripetere, con cadenza ossessiva, che il bisogno di identità è un falso bisogno. Per giunta assai pericoloso. Il più pericoloso”. La cultura contemporanea è addirittura arrivata a rovesciare il comune sentire arrivando alle posizioni a dir poco stravaganti di Stefano Rodotà: “Bisogna amare lo straniero, non il prossimo. Amare lo straniero è il punto chiave della solidarietà. La solidarietà per vicinanza, per appartenenza, sono facili. La solidarietà deve essere praticata in tempi difficili che spingono anche a rotture. Se viene abbandonata, vengono meno le condizioni minime della democrazia, cioè il riconoscimento reciproco e la pace sociale”. L’autore ripercorre le radici di questa concezione anti-identitaria che a suo parere affondano nel pacifismo teorico del danese Frederik Bajer, nell’europeismo e nella svalutazione del concetto di Nazione di autori come Mario Albertini e Altiero Spinelli, senza dimenticare il “pan-europeismo” del noto Richard Coudenhove-Kalergi.

L’autore intravede uno stretto legame tra determinati presupposti ideologici (pacifismo, europeismo, svalutazione dell’idea di Nazione, terzomondismo) e le loro conseguenze pratiche. I sopra citati presupposti ideologici creano un problema di identità e un senso di colpa nell’uomo europeo, dal quale deriva un atteggiamento arrendevole verso il fondamentalismo islamico, verso il terrorismo, verso un’immigrazione incontrollata e senza regole.

Occupandosi poi delle vicende del terrorismo e del conflitto arabo-israeliano con particolare riguardo al coinvolgimento del nostro Paese negli anni ’70 e ’80, Piras rifiuta il carattere di novità della stagione terroristica inauguratasi con l’11 settembre 2001, sottolineando come tra il terrorismo palestinese dei decenni passati e il terrorismo fondamentalista odierno vi sia una sostanziale continuità. L’ondata terroristica palestinese iniziata negli anni sessanta e terminata negli anni ottanta costituisce, a suo parere, un’esperienza fondativa per la strategia terroristica ripresa dal 2001 in poi da organizzazioni come Al Qaeda e Isis. Da questo punto di vista, il terrorismo palestinese avrebbe realizzato un metodo operativo poi ripreso in seguito da tutte le successive organizzazioni terroristiche di matrice araba e islamica. L’autore ricorda che anche l’idea di impossessarsi di aeroplani con i quali effettuare un attentato suicida, che fu portata ad esecuzione a New York l’11 settembre 2001, fu progettata per la prima volta – anche se mai realizzata – negli ambienti palestinesi.

Di particolare attualità sono le pagine sulle ripercussioni del cosiddetto “lodo Moro” del 1973, presunto accordo tra il presidente del Consiglio dei Ministri italiano e le organizzazioni palestinesi, che per oltre dieci anni avrebbe contrassegnato i rapporti tra le autorità della Repubblica Italiana e i terroristi arabo-palestinesi, risparmiando al nostro paese attentati sul proprio territorio in cambio di una più o meno marcata “tolleranza” nei confronti di basi e transiti dei terroristi entro i nostri confini. L’esistenza di tale accordo, oggetto di interrogazioni parlamentari da parte di esponenti del Msi-Dn e del Pli, fu sempre negata dal governo democristiano. Il “terminus a quo” e il “terminus ad quem” del periodo di vigenza del “lodo Moro” sono i due attentati palestinesi a Fiumicino del 1973 e del 1985, in merito ai quali occorre riconoscere che ormai sono stati praticamente cancellati dalla memoria storica del nostro Paese. L’autore riporta anche la tesi secondo cui la famosa strage di Bologna del 2 agosto 1980 sarebbe da inserire in tale contesto, avendo una matrice non di terrorismo interno ma palestinese, ancorché dovuta a una tragica fatalità: una ricostruzione, di cui è debitore al magistrato Rosario Priore e al suo libro “I segreti di Bologna”, che a suo tempo attirò gli strali di una certa politica bolognese e di un certo associazionismo dei parenti delle vittime, poco disposti a una ricerca oggettiva e libera della verità scevro da tesi preconcette e pregiudizi ideologici.

Traspare dal libro un’analisi delle responsabilità nel conflitto arabo-israeliano dal 1947 a oggi, in cui rispetto alla versione corrente, le responsabilità israeliane sono attenuate rispetto a quelle palestinesi. Si richiama tra gli altri episodi quello del 1972, il tentativo di Re Hussein di Giordania di costituire, previa applicazione della risoluzione Onu del 22 novembre 1967 che prevedeva il ritiro israeliano dai cosiddetti territori occupati, un “Regno Arabo Unito” includente la Transgiordania, la Cisgiordania e “ogni altro territorio palestinese”, quindi inclusa anche la striscia di Gaza. Tentativo che fu ostacolato in primo luogo proprio dai palestinesi e dagli Stati arabi.

Il libro non tratta il ruolo degli Usa e dell’Arabia Saudita (e in seguito anche delle altre monarchie del golfo persico) nella nascita e nello sviluppo del terrorismo fondamentalista islamico nei decenni. Il terrorismo islamista contemporaneo ebbe il suo primo teorico nel palestinese Abd Allāh Yūsuf al-Azzām: “Questo dovere non si concluderà con la vittoria in Afghanistan; il jihad resterà un obbligo personale finché ogni altra terra appartenuta ai musulmani non ci sarà restituita così che l’Islam torni a regnare; davanti a noi si aprono la Palestina, Bukhara, il Libano, il Ciad, l’Eritrea, la Somalia, le Filippine, la Birmania, lo Yemen del Sud, Tashkent e l’Andalusia”. Secondo lui il musulmano che scegliesse la via del martirio in un attentato suicida “sarebbe stato ricompensato con l’assoluzione da tutti i peccati, settantadue bellissime vergini, e il permesso di portare con sé settanta membri della propria famiglia”.

Fu proprio nel quadro della resistenza contro l’invasione sovietica in Afghanistan che Usa e Arabia Saudita cominciarono a sostenere e finanziare il fondamentalismo islamista. Dall’esperienza afghana hanno poi preso le mosse tutte le altre esperienze terroristiche islamiste, come Al Qaeda (il cui capo, il saudita Osama Bin Laden, mosse proprio in Afghanistan i primi passi) e l’Isis. Se pure la tesi dell’Autore del libro in merito al “modello palestinese” cui si sarebbe ispirato il nuovo terrorismo islamista, anche alla luce della provenienza palestinese di al-Azzām,  parrebbe almeno parzialmente confermata dai fatti, appare evidente che il terrorismo islamico contemporaneo si sviluppa soprattutto a seguito della convergenza tra gli interessi geopolitici e i finanziamenti americani e sauditi e l’islamismo wahabita e salafita di matrice saudita.

Luca Cancelliere

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