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“Siamo quelli che tornano sempre, i mai morti”: Carlo Mazzantini e quell’eterno schiaffo alla retorica odierna

by Lorenzo Cafarchio
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carlo mazzantini, fascismo

Milano, 25 apr – “Eccola lì la nostra bandiera! La bandiera col buco: dove ci si può guardare attraverso!”. Il 25 aprile è arrivato. Quel buco, creato dallo stemma di casa Savoia, è tra di noi. Un passato che vuole essere cancellato, un passato vilipeso che vuole eliminare i vent’anni del Fascismo. Figuriamoci i 600 giorni della Repubblica Sociale Italiana. Eppure ci guardano ancora quei giorni, quegli attimi eterni dove la gioventù d’Italia ha incontrato la vita, la morte, la pietà (poca a dire il vero), la redenzione e il tradimento. Carlo Mazzantini, poeta e scrittore romano nato nella Capitale nel 1925, l’8 settembre del 1943 aveva 17 anni. Il futuro davanti, ma la storia tra le mani. E la storia scelse di calzarla assieme al moschetto. Inquadrato nella 63ª Legione CC.NN. d’Assalto “Tagliamento”. La guerra suprema prova umana da affrontare. Ma quel giovane Mazzantini non sapeva quello che Seneca da millenni ci insegna e che oggi la partigianeria dei partigiani sventola senza sosta: “D’ogni guerra, / non il motivo, l’esisto si chiede”. Ma quale motivo più alto e supremo se non quello di un’idea, anzi l’idea.

“Siamo quelli che tornano sempre: i mai morti”

A cercar la bella morte è il romanzo d’esordio, pubblicato nel 1986 con Mondadori e poi nel 1995 con Marsilio, di Carlo Mazzantini. Dentro gli umori e la voce di chi ha devoluto carne, ossa e tendini alla Rivoluzione fascista di Benito Mussolini, anzi della Nazione intera. Dai monti della Valsesia il canto di quei giovani. Di quegli uomini che hanno trovato le idee senza parole, tanto care a Oswald Spengler, per affrontare la Guerra Civile che ha frastagliato l’Italia. Erano loro che con orgoglio, avvolti dalla camicia nera, gridavano: “Sì siamo noi! Siamo tornati! I monti non ci hanno inghiottito. Noi siamo quelli che tornano sempre: i mai morti!…”. C’è il pathos eterno qui. Siamo al centro della scena. L’Italia divisa in due, ma quei giovani figli del Novecento, figli della Prima Guerra Mondiale, figli della trincea hanno guardato negli occhi il viso scavato, ma allo stesso tempo pasciuto, dell’avvenire. Erano loro che cantavano controvento. “All’era imboscati che gli emme son tornati!”. 

Carlo Mazzantini, 17 anni per sempre

Carlo Mazzantini lo hanno voluto mettere, sempre e comunque, dalla parte sbagliata. Perché non ha avuto nessun pentimento davanti a quella scelta dei suoi 17 anni. Tanti vogliono insegnare il passato con i paradigmi dell’istante in cui vivono. Lui no. Ha fatto parlare i giovani di Mussolini nei suoi romanzi. Quelli che scelta la RSI pensavano solo alla rivoluzione. “Questa è la rivoluzione, volete capirlo? Le rivoluzioni non si fanno con i guanti bianchi. No! Stavolta non si ripetono gli errori del ‘21! Stavolta si fa piazza pulita! Pietà l’è morta”. Sono i giovani come Edgardo Sulis intellettuali pronti a fare il processo alla borghesia. Intellettuali pronti alla Rivoluzione ideale, citando il titolo di un’opera di Sulis, capace di creare un nuovo Fascismo che fosse quello delle origini.

Ma è sempre la pietà a fare la fine peggiore. Uccisa in una foiba, fucilata con una pallottola al petto o deflagrata in un attentato come in via Rasella. Di testimonianze Mazzantini ne ha lasciate ancora. I balilla andarono a Salò è “un volume pieno di passione, malinconia, orgoglio”, citando lo storico Luca Canali. Un saggio che muove i suoi passi attorno alla gloria. Come quella di Francesco I di Valois. Sul campo di Pavia, il re di Francia, cadde prigioniero degli imperiali, ma le sue parole regnano ancora in eterno: “Tutto è perduto fuorché l’onore”. La stessa imperiale parola contenuta quella fettuccia nera, per il lutto della Patria, che i paracadutisti della RSI avevano ricamata sulla divisa: “Per l’onore”. Mazzantini tra le pieghe dei suoi scritti non perse l’occasione di attaccare la retorica figlia di quegli anni. Uomini e no, l’opera più nota di Elio Vittorini, definiva “i no i non uomini” appunto come i fascisti. Un manifesto “di un atroce manicheismo biologico, che fa di una affiliazione politica una discriminante che nulla ha da invidiare alla teoria dell’undermensch, il sottouomo con cui il nazismo condannava l’ebreo”. 

Perché qui non ci sono storie lacrimevoli, nessuno cerca espiazione e salvezza. Ma la giustizia. La giustizia per una generazione che ha perso tutto tra le macerie della guerra, ma che ancora oggi segna un raggio luminoso che passa attraverso il pattume post-ideologico. Mazzantini conclude I balilla andarono a Salò ricordano il sacrificio di “43 miei giovani camerati” fucilati il 28 aprile 1945, a conflitto mondiale concluso, a Rovetta, un paese sotto il passo della Presolana, nella bergamasca. E mentre cadevano, quei “figli di stronza”, a cinquine per otto volte davanti a un muro avevano ben fisso nella mente, nel cuore e nell’ugola una cosa sola, la Nazione. Per otto volte i partigiani, le donne, gli uomini di quel luogo e il silenzio delle pallottole hanno dovuto udire, senza sosta, due parole. Due parole che valgono una vita, che valgono e redimono un’esistenza: “Viva l’Italia”. E quei vocaboli tornano ogni 25 aprile e lo faranno a imperitura memoria di chi non ha niente da festeggiare il giorno della liberazione. 

Lorenzo Cafarchio

 

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