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Fides e Vittoria: a 90 anni dalla morte di Giacomo Boni

by Adriano Scianca
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Grave-of-Giacomo-BoniRoma, 10 lug – È il 16 febbraio 1923, due signori si incontrano in un luogo del tutto inusuale. Si trovano, infatti, in mezzo al foro romano.
Il più giovane è un americano assetato di cultura europea e ha 38 anni. È appena arrivato in Italia e si è subito fiondato in mezzo agli scavi. L’altro è un veneziano trapiantato a Roma e di anni ne ha 64. Parla bene inglese, lo ha imparato diversi anni prima alle scuole serali e lo ha affinato in alcune collaborazioni con istituti internazionali, quindi la conversazione può essere fluida.
L’americano è Ezra Pound e qualche settimana dopo, scrivendo alla madre, così rievocherà quell’episodio: “Ho incontrato diversi amabili letterati, come Giacomo Boni, il direttore degli scavi, che vive su una collina all’interno del foro”.
Il caso, forse, non esiste mai. Di sicuro non nella vita di Giacomo Boni, di cui oggi ricorre il novantennale della morte, avvenuta il 10 luglio 1925. Casuale, forse, non fu neanche questo incontro non programmato con il grande poeta, che Boni mise in contatto con il collega Corrado Ricci, autore di studi sul tempio malatestiano, in quel periodo vera ossessione poundiana.
Avessero potuto conversare più a lungo, avrebbero potuto trovare altri punti di sintonia, a cominciare dall’idea di voler “rifare l’Italia agricola, laboriosa e pura” oppure dal culto mistico del grano (anche se Boni preferiva il farro) o dalla passata vicinanza con John Ruskin.
Per un genio curioso, proteiforme, originale come Pound, Giacomo Boni era l’interlocutore ideale. Di cultura e interessi enciclopedici, Boni non era un semplice archeologo ma un vero e proprio cultore della romanità in tutti i suoi aspetti, non esclusi quelli “sottili”, legati alle forze segrete del genius loci, di cui egli si fece vettore consapevole.
Ma chi era questo tipo definito da Ugo Ojetti come “uno degli uomini più singolari e affascinanti di questo secolo”? Nato a Venezia il giorno di S. Marco, il 25 aprile 1859, dopo gli studi tecnici partecipò ai restauri che si eseguivano sul Palazzo Ducale di Venezia e studiò architettura all’Accademia delle Belle Arti.
Nel 1890 è nominato ispettore dei monumenti della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti: nel 1895-1896 è direttore dell’Ufficio Regionale dei Monumenti di Roma e a partire dal 1898 dirige gli scavi del Foro Romano, a cui a partire dal 1907 si aggiungono quelli del Palatino. Alle sue ricerche nel Foro BoniRomano si devono la scoperta del Lapis niger, della Regia, del Lacus Curtius, dei cunicoli cesariani nel sottosuolo della piazza, della necropoli arcaica presso il tempio di Antonino e Faustina e della chiesa di Santa Maria Antiqua. Sul Palatino portò alla luce una cisterna arcaica a thòlos, i ricchi ambienti della “Casa dei Grifi” e della cosiddetta “Aula isiaca” al di sotto del palazzo imperiale di età flavia.
Tutto questo già basterebbe a fare di Boni un eroe della cultura nazionale e della custodia dell’eredità romana. Ma non si comprende ancora nulla del personaggio se non si entra a pieno nel suo più ampio progetto di civiltà romano-italico e nella dimensione anche spirituale e “magica” del suo lavoro di archeologo, guidato allo stesso tempo da perizia tecnica e da segni, simboli, sogni, messaggi di forze superiori.
Benedetto Croce, che lo incontrò intorno al 1906, ne descrisse “l’aspetto tra di mago e di veggente”. D’Annunzio lo battezzò “vate e veggente del Palatino”. Per Ojetti era il “sacerdote della Dea Roma”. Tutti coloro che lo conobbero ne hanno ricavato una impressione di grande potenza e sacralità.
Uomo di fides, Boni non era tuttavia avulso dalla realtà storica, politica e sociale in cui si trovava. Tutt’altro. Allo scoppio della Grande Guerra, non potendo servire come soldato, l’archeologo diede il suo contributo tecnico, raggiungendo il fronte e cercando soluzioni pratiche ai problemi dei soldati.
Scriverà: “Tutta la vita trascorsa sembra un nulla al confronto di ciò che l’Italia opera qui con una fede ed un’abnegazione che fanno persino dimenticare la materialità della guerra, e danno l’impressione di assistere ad una cerimonia religiosa, ad un atto puro di sacrificio collettivo per il trionfo d’un principio da cui dipende tutta la vita nostra”.
Il 13 gennaio 1916, Boni fu tuttavia colpito da un paresi al braccio e alla gamba destra, cui seguì la pleurite. Quando si riprese, tornò al suo Palatino, e da lì cercò di raccogliere tutte le forze spirituali per aiutare la nazione in guerra. Archeologo-contadino-sacerdote, fece del colle sacro di Roma un tempio a cielo aperto in favore della Vittoria. Poi, nel 1918, il segno: durante i lavori di demolizione di una torre medievale sulle pendici del Palatino ritrovò il frammento di una grande statua di marmo, che giudicò essere una Nike del V secolo a.C. Per Boni era l’omen della Vittoria.
Dopo la guerra sostenne l’avventura dannunziana a Fiume (per il Vate aveva una grande ammirazione, ma più per il soldato che per il poeta). Il biennio rosso, la caccia al veterano, la vittoria mutilata lo portarono quasi subito a solidarizzare col fascismo.
Prontamente si mise a disposizione del duce e della sua opera di riscoperta della romanità. Il 1° marzo del 1923 inviò a Mussolini un ramo di lauro, ricordando che “i soldati romani che seguivano il carro trionfale avevano la testa coronata di lauro, per espiare gli omicidi legali commessi in guerra, ed i fasci littori dei consoli vittoriosi erano pure inghirlandati di lauro. Questi fasci erano gli emblemi delle magistrature supreme, della purificazione suprema. La società umana cessa di essere società e finisce di essere umana, quando cessa di purificarsi”.
Su incarico del ministro delle Finanze Alberto De Stefani cercò anche di ricostruire il fascio littorio nella sua forma originale. Quel simbolo finì sulle nuove monete da due lire. Margherita Sarfatti ne parlò come di un’arma “potentissima per la diffusione del senso della bellezza”, fungendo da “umile agente di propaganda che penetra ovunque, passa per ogni mano, all’interno e all’estero, dice a tutti e rappresenta per tutti l’Italia”. È appena il caso di dire quanto anche questa idea della moneta come simbolo di bellezza fosse eminentemente poundiana.
Alla vigilia del discorso di Mussolini del 3 gennaio, che segnò il superamento della crisi del fascismo dopo l’assassinio Matteotti, inviò un ramo di mirto al Duce, “quale augurio per la purificazione indispensabile alla concordia civile”.
Va ricordato, inoltre, che Boni fu anche uno dei pionieri degli studi sugli indoeuropei in Italia. Auspicò aiuti pubblici per uno studio sull’antica civiltà aria che spaziasse dall’Irlanda all’India. E se a un certo punto finirà proprio nell’Isola Verde a misurare i crani dei bambini parlanti il gaelico, nel suo ultimo discorso da senatore, nel febbraio del 1925, in occasione della discussione sul voto di fiducia a Mussolini, citò addirittura il Bhagavad-gîtâ. Grande fu anche la sua passione per il Giappone, il cui punto apicale fu la visita che l’imperatore Hirohito gli fece sul Palatino.
Dopo la sua morte, la sua salma fu avvolta nel tricolore e fu sepolta, su richiesta di D’Annunzio e con assenso di Mussolini, negli Orti farnesiani, sul Palatino. Nella sua ultima conferenza, così aveva terminato il suo discorso: “Torneremo a ricordare, a studiare ed obbedire le tradizioni patrie venerande, ispirandoci al costume antico, alla Fides nazionale, all’idea della Giustizia purificatrice, che aveva per emblema un fascio littorio e alle virtù domestiche che portarono gli italici a livello mai raggiunto da ogni altra stirpe umana”.
Adriano Scianca
(molte delle informazioni citate dell’articolo sono tratte dal saggio di Sandro Consolato, Giacomo Boni, Il Veggente Del Palatino, uscito in “Politica Romana” 6/2000-2004, pp. 33-1808. Ringrazio l’autore per il reperimento del testo)
 

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