Roma, 9 gen – È un Harlock maturo, cupo e tragico quello che il lungometraggio Capitan Harlock 3d porta in questi giorni nei cinema italiani. Per gli appassionati di lunga data potrà sembrare una forzatura e senza dubbio i fan della serie classica troveranno incongruenze e mancanze in questo spettacolare film di circa due ore, ma una visione attenta della pellicola svela senza ombra di dubbio il senso delle scelte di sceneggiatura e regia, tese a rinnovare il mito del Capitano e non soltanto a replicarlo.
Come è già stato ampiamente messo in luce, siamo davanti a un’opera visivamente eccelsa, evocativa e stupefacente. Il sonoro è coinvolgente e potente, l’ambientazione a metà strada tra l’oscurità gotica e l’ipertecnologia fantascientifica deve molto alla letteratura steampunk. La storia complessa e intricata può sembrare dispersiva ed eccessivamente cervellotica, ma non lo è. Il riferimento a cui risale questo nuovo capitolo della storia di Harlock è soprattutto il ciclo ispirato all’Anello del Nibelungo, di cui in Italia sono usciti tra l’altro gli otto volumi a fumetti. Non si comprende la complessità di questo film se non lo s’inserisce a tutti gli effetti nell’ottica del mito tragico.
Il fulcro della vicenda sono Capitan Harlock, il giovane Yama e suo fratello Izra. Yama è un ragazzo idealista, sulle prime sembra un traditore buono solo per la gogna ma nell’arco della prima parte si affiderà agli ordini del Capitano. Harlock nel corso di tutto il film è una presenza sfuggente e distante. Alcuni hanno visto in questo una pecca, ma in realtà il ruolo dell’eroe viene così esaltato e nella seconda parte, quando i fili tessuti dalla sceneggiatura vengono al pettine, il suo destino prenderà definitivamente forma.
Izra, capitano della flotta di Gaia e difensore dell’inviolabilità della Terra, rappresenta la nemesi di Harlock e il suo nemico giurato. Il duello tra i due si risolverà con la disfatta dell’imponente flotta della Coalizione, ma quando tutto sembra risolversi con semplicità apocalittica, le cose si complicano nuovamente. C’è vita sulla terra e il piano di Harlock, afferma con forza Yama, deve essere rivisto.
Lo spettatore medio a questo punto non sa con chi schierarsi. Se la Coalizione Gaia rappresenta un’umanità decadente, corrotta e vecchia, anche Harlock appare ambiguo, tragicamente tormentato dal fardello di un errore commesso cento anni prima. L’abitudine alla netta distinzione tra “buoni” e “cattivi” di matrice dualistica non permette di comprendere a fondo il senso del mito dell’Arcadia e della sua flotta. Perciò il ruolo di Yama, tormentato ma coraggioso, risulta a tutti gli effetti centrale e di raccordo. Il giovane rappresenta gli interrogativi del pubblico e ne trasforma in decisione e azione i pensieri. Divenendo egli stesso, infine trasfigurato, il Capitano Harlock.
Yama sa, perché è stato ammonito da Harlock e Meeme, che arriverà il giorno della decisione e che per essere davvero libero dovrà affrontare il peso che lo tormenta, solo così potrà “divenire ciò che è”. Personaggio combattuto tra l’eroismo tragico del Capitano e la fedeltà alla Terra rappresentata dal dovere che lo lega al fratello, sarà proprio la scelta di Yama a risultare risolutiva.
Similmente, Harlock comprende che è tempo di andare oltre, che anche lui deve accettare il proprio destino e se necessario abbandonare il vecchio piano di rigenerazione dell’universo. Sulla Terra è ancora possibile la vita, e d’altronde lì non ci sarà mai posto per lui e i suoi uomini. Romantico e sognatore, Harlock affida nelle mani dell’ormai trasformato Yama la missione di custodire il potere distruttore e il timone dell’Arcadia. Il passaggio di consegne avviene in modo sottile ma netto: il mito di Harlock deve continuare, affinché il vessillo continui a sventolare e a indicare la patria dei senza patria.
Lo snodo della vicenda va cercato in una frase che Harlock e Meeme pronunceranno diverse volte nella seconda parte del film: «Un istante che si ripete nel tempo diventa eterno». In questo enigma di ascendenza nietzscheana è racchiuso il senso delle scelte che saranno compiute. Tutto si ripete invariabilmente e nell’eternità nulla va perduto. La vita stessa può germogliare e tornare a essere. Allo stesso modo, l’istante decisivo in cui l’eroe supera se stesso, rinuncia a sé per trasfigurarsi in una nuova forma è sempre possibile ed è il tratto fondamentale dell’autentica libertà. Libertà prima di tutto da se stessi e dalle proprie ossessioni.
Capitan Harlock richiama in questo film la figura del dio nordico Odino. Come lui è privo di un occhio, a cui ha rinunciato per avere la comprensione della verità, è accompagnato dal suo fido uccello nero Tori-san, una via di mezzo tra un corvo e un avvoltoio, e si affida alla saggezza e ai poteri dell’ultima della stirpe dei Nibelunghi, Meeme. Come Odino, Harlock comprenderà appieno il suo destino quando, abbandonato per un attimo dai suoi camerati, appeso alle catene e infine prostrato al suolo, la sua tragedia assumerà i contorni dell’enigma dell’eterno ritorno. Harlock come un Sigfrido/Odino cosmico, la tragedia di una vita che rinuncia a se stessa per potenziarsi, per andare oltre.
Per questo il mexican stand-off finale tra Yama e Harlock sembra più una provocazione – un’esortazione affinché il giovane accolga sulle sue spalle il compito gravoso di procedere oltre – che un vero e proprio ritorno al proposito originario di annientamento.
Il film rappresenta un potentissimo concentrato di tensione sovrumanista. Difficilmente lo spettatore medio potrà sviscerare e comprendere il senso autentico di un così vasto disegno alla prima visione. Il mito richiede tempo per radicarsi e crescere, e quello di Harlock giunge a questo punto a giganteggiare al fianco di nobili miti moderni quali Faust e Amleto. Può sembrare azzardato, ma la grandezza del personaggio, i significati nascosti nella trama, le prospettive verso cui proietta e il senso tragico che pervade ogni cosa sono qui presenti nella forma ambigua propria di ogni mito vivente. Ciò che non risulta chiaro o pienamente esplicito è parte di un enigma più grande che pervade la realtà stessa dell’essere umano e che non sta a un racconto sviscerare.
Il mito non distingue in buoni e cattivi, non esiste il “male assoluto”. Anche l’eroe può commettere errori e da essi può dipendere la catastrofe. Ma l’uomo, come ammoniva già Nietzsche, non deve compiere l’errore di assolutizzare la sua prospettiva sul mondo e sull’universo; l’umanità non è che una bolla di sapone, una forma di vita tra le altre. Che l’essere umano esista o meno, è del tutto indifferente per la vita e il divenire. Eppure in ogni istante può ripetersi l’evento, l’eterno può manifestarsi nella sua potenza in ogni momento, ed è lì nella sua radura che si raccoglie la luce della rinascita.
Non bisogna quindi ancorarsi al passato, bisogna saper abbandonare i propri tormenti e volgere nuovamente lo sguardo più avanti ancora, perché solo l’occhio di un dio può misurare la storia e gli uomini del destino.
Francesco Boco
(Cfr. le altre due recensioni del film, qui e qui)