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Edmund Husserl e la crisi della coscienza europea

by Melania Acerbi
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Roma, 21 ago – Il lettore di qualunque età e provenienza non potrà non essersi accorto della enorme crisi di valori che l’Europa sta attraversando da, ormai, troppi anni. La criminalizzazione del maschio bianco, la messa in discussione della famiglia, l’esaltazione di tutto ciò che è sovversivo. Poi la stigmatizzazione della tradizione, il relativismo assoluto, la propaganda anti-cattolica. E in ultimo l’ossessione per l’autonomia dell’individuo e per il divorzio del singolo dalla comunità d’appartenenza – definibile come celebrazione del “solismo” di massa. Sono solo alcuni dei sintomi evidenti di questa malattia dell’occidente.

Di questo impasse epocale che pone ognuno di fronte a una sfida reale e irrimandabile e che mette nelle condizioni di guardare al presente come a un campo di battaglia, a un’arena in cui sembrano sfidarsi un passato solido e concreto contro un futuro indefinito e indefinibile. Che ancora non è, ma vorrebbe essere al più presto. A patto di eliminare ogni richiamo non strumentale alla storia e alla memoria. Bisogna scegliere da che parte stare, senza tentennamento alcuno.

La sostituzione della kultur con la zivilisation

Di fronte a questa crisi, anzitutto identitaria, tornano alla mente le parole, attualissime, del filosofo austriaco Edmund Husserl (1859-1938) intorno a quella che egli definiva la “crisi della coscienza europea”. Già a partire dai primi anni del ‘900 e, in particolare, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, il filosofo aveva individuato nella società del suo tempo la presenza di elementi che avrebbero portato l’Europa ad affrontare una profonda crisi di coscienza e di senso. Tra i sintomi della crisi v’era, per Husserl, la sostituzione della kultur con la zivilisation.

La prima si può descrivere come la fertilità delle forme spirituali, religiose e culturali che da sempre aveva guidato la “missione europea”. Una sorta di spirito razionale dell’Occidente o, in altre parole, ricerca filosofica della verità. La seconda, la zivilisation, è un atteggiamento, una cultura esteriorizzata e sterile, surrogata e degenerata in attività prive di valore, è lo sfoggio del “bon-ton”, una pseudocultura atrofizzata che non crea niente perché, filosoficamente, niente cerca. La zivilisation può, al massimo, dar luogo a copie distorte dell’originale: i valori di cui si fa portatrice non sono veri valori, ma copie degli stessi svuotati del loro significato.

Il ruolo delle scienze secondo Edmund Husserl

Husserl metteva in guardia: se la zivilisation avesse preso il posto della kultur l’Europa avrebbe perso di vista il suo spirito originario e, con esso, la sua stessa identità. L’Europa di oggi, identificandosi con una cultura inautentica, ripetitrice e meramente civilizzatrice è completamente immersa nella crisi paventata dal filosofo. Una delle cause dell’impoverimento della kultur andava ricercata, per Husserl, nel ruolo onnipervasivo della scienza e delle scienze. La scienza non aveva mantenuto la promessa di liberare l’umanità dalla schiavitù del mito. Limitandosi a interpretare la realtà e gli uomini in termini dogmaticamente naturalistici, creando, a sua volta, un nuovo mito: il mito scientifico. “Siamo felici dei nostri progressi? La via scientifica ci farà uscire dalla crisi o sarà proprio quella via a portarci verso l’abisso?” chiedeva Edmund Husserl al suo uditorio durante una conferenza tenutasi a Vienna nel 1935.

Le domande del filosofo, va detto, sono estremamente attuali. Ognuno, in cuor suo, cercherà le risposte. Quel che è certo, è che bisogna stare attenti a non confondere l’indiscussa utilità dei progressi tecnici e scientifici con il progressismo, che, ahìnoi, dichiarandosi figlio della scienza e fedele a essa, vuole assumerne, coi suoi valori fasulli, la stessa credibilità e la stessa utilità. Se lo spirito che anima certa ricerca scientifica può inserirsi nella kultur, il progressismo sociale e politicizzato è l’immagine della più bieca e insulsa zivilisation.

Melania Acerbi

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