Sono passati esattamente cento anni dalla celebre marcia su Roma, allorché decine di migliaia di fascisti presero la via della capitale per conquistare il potere. Eppure, malgrado sia ormai trascorso un secolo, in tutti gli ambienti semicolti d’Italia continuano a circolare interpretazioni deformate o addirittura irridenti di quegli eventi. E la lettura più gettonata è quella che descrive la marcia su Roma come un qualcosa a metà strada tra una passeggiata domenicale e un mero colpo di teatro. Peccato solo che le cose non stiano affatto così.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di ottobre 2022
Altro che «commediola»
Secondo le interpretazioni di matrice antifascista più in voga, la marcia su Roma non sarebbe stata altro che «una goffa kermesse» (A. Repaci) o «poco più che una trascurabile adunata di utili idioti» (D. Sassoon). Una lettura strafottente e al contempo autoconsolatoria che, però, non riflette minimamente la realtà storica.
A liquidare queste letture di comodo ci ha pensato Emilio Gentile, uno dei massimi storici del fascismo, che in E fu subito regime: il fascismo e la marcia su Roma (Laterza, 2012) scrisse a chiare lettere: «Il sarcasmo storiografico lascia senza risposta, ripetendo così l’errore di incomprensione commesso a suo tempo dalla maggior parte degli antifascisti, che non presero sul serio il fascismo e la “marcia su Roma”. Poi, sconfitti e messi al bando dal fascismo, si consolarono ridicolizzando la “marcia su Roma” come una messa in scena, e proiettarono questa immagine su tutta la successiva esperienza del regime totalitario: e non capivano che, in tal modo, essi ridicolizzavano se stessi, perché si erano lasciati travolgere dai commedianti di un’opera buffa, i quali rimasero al potere per un ventennio, e furono detronizzati soltanto dopo essere stati sopraffatti e disfatti dagli eserciti stranieri in una seconda guerra mondiale».
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In effetti, parlando di «marcetta» o «colpo di teatro», sfuggirebbe completamente il dato storico più rilevante della vicenda: un partito-milizia conquista il potere tramite un’insurrezione armata e con il dichiarato intento di smantellare lo Stato liberale. Naturalmente, non bisogna neanche fare l’errore opposto, ossia considerare la marcia su Roma alla stregua della presa della Bastiglia. La vera battaglia, più che in piazza, ebbe luogo sulla linea telefonica che univa Milano (dove si trovava Mussolini), il Quirinale (residenza del re) e il Viminale (l’allora sede della presidenza del Consiglio). Fu infatti soprattutto l’azione diplomatica di Mussolini a rendere possibile l’impresa. Con un’abilità politica senza pari – come dichiarò il suo attendente Cesare Rossi – il Duce «fece fessi tutti» e riuscì a coronare di successo l’insurrezione armata delle squadre d’azione.
Le forze in campo
Questo ovviamente non vuol dire che la marcia su Roma abbia rappresentato una dimostrazione di forza dai caratteri meramente spettacolari. La storiografia – anche la migliore – ha dato spesso eccessivo credito alla versione autoassolutoria del generale Emanuele Pugliese, comandante della guarnigione preposta alla difesa della capitale. Rispondendo alle accuse che gli furono rivolte, Pugliese ha infatti indicato cifre quantomeno sospette riguardo alla sua guarnigione, non mancando di rilasciare dichiarazioni del tipo «sarebbero bastati pochi colpi di cannone a salve, per disperdere e disarmare quelle torme». Le «torme» di cui parla con disprezzo Pugliese, e che l’antifascista Amendola definì «quattro scalzacani», sarebbero le colonne di squadristi accampate ai confini di Roma, formate da circa 30mila armati.
Se è vero che l’organizzazione delle camicie nere non era certo irreprensibile – come valutava il quadrumviro De Bono – e se è altrettanto vero che l’esercito le aveva tagliate fuori dalla capitale, si deve pur sempre rammentare che le squadre erano per la maggior parte formate da ex combattenti e decorati al valore. Non a caso, il Pnf fu definito il «partito delle medaglie d’oro».
Come andò davvero la marcia su Roma
Ma il problema non riguardava solo le milizie stanziate nei pressi di Roma, che si trovavano in condizioni obiettivamente critiche (pioggia battente, carenza di viveri ecc.). Nel resto del centro-nord i fascisti – che avevano mobilitato 300mila camicie nere – avevano già occupato quasi tutti i centri nevralgici delle principali città, spesso aiutati dai militari, entrando in possesso di fucili, mitragliatrici e, addirittura, pezzi d’artiglieria.
Per rendere l’idea della gravità della situazione, basta rileggere la testimonianza di Efrem Ferraris, l’allora sottosegretario agli Interni: «Assistevo nella notte [tra 27 e 28 ottobre], nel silenzio delle grandi sale del Viminale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato. Si infittivano, sui grandi fogli che tenevo dinanzi a me, i nomi che andavo notando delle prefetture occupate, le indicazioni degli uffici telegrafici invasi, di presidî militari che avevano fraternizzato coi fascisti fornendoli di armi, dei treni che le milizie requisivano e che si avviavano carichi di armati verso la Capitale». Insomma, gli esiti di un eventuale scontro, perlomeno in quel frangente, erano tutt’altro che scontati. Anche perché – come notò giustamente Enzo Erra – «quando si mossero verso Roma, gli squadristi non…
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