Roma, 27 mar – Intervista al filosofo Mauro Cascio in occasione della pubblicazione, per la casa editrice Mimesis, di due volumi a sua cura: Introduzione alla filosofia di Hegel di Augusto Vera, già presentato a Urbino e Ravenna, e il Commentario alla Logica di Hegel di John Ellis McTaggart.
Già Croce si chiedeva: cosa è vivo e cosa è morto della filosofia di Hegel? Lei cosa risponderebbe?
“Nel 1970 a Pechino si incontrano Mao e Henry Kissinger. Certo, al centro delle loro riflessioni c’erano gli equilibri geopolitici, ma saltò fuori Hegel. Due mondi lontanissimi tra di loro e altrettanto distanti dal cuore dell’Europa da cui Hegel proviene. Potremo citare anche Lenin, che a momenti ferma la Rivoluzione d’Ottobre, e si mette a studiare la Grande Logica. Ogni Paese lo ha assimilato a suo modo, per carità, ma tutte le culture mature ci hanno dovuto fare i conti. Quella anglo-americana non ha grande profondità di pensiero, ma è molto pragmatica-pratica, con forti tentazioni empiriche, e lo ha visto, avendolo poco studiato e ancor meno capito, come un nemico da abbattere. Quella francese molto tendente all’eclettismo lo ha dapprima citato, spesso a sproposito: «Cousin non ha pescato nessun pesce dalle mie acque, ma lo ha cucinato nelle sue salse», diceva già Hegel in vita, poi lo ha rimesso al centro della cultura europea, con Jean Hyppolite e la lettura di Kojève. In Italia lo abbiamo prima vivificato con Augusto Vera e Bertrando Spaventa, poi lo abbiamo voluto riformare per renderlo più potabile, con Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ma per farla breve si tratta sempre della stessa cosa. Ci si è affrettati con troppa leggerezza a dare per morte cose che si trattava invece di approfondire e capire”.
In che modo nasce l’idea di strutturare un commentario alla sua logica? Che spunto vuole offrire ai lettori?
“La filosofia di Hegel ha questa caratteristica fondamentale: è la filosofia del tutto, è il Sistema. Diciamo meglio: sistematizza, mette a sistema, tutte le scienze particolari, per un’unica e coerente visione del mondo. Detta così sembrerebbe solo un mettere in ordine quel che c’è, e non è proprio questa la questione ma qualcosa di più profondo: saper cioè cogliere i momenti necessari che legano un sapere a un altro. L’obiettivo è il sapere assoluto, che si dà come autoriflessione di un’epoca storica. Non è qualcosa di definitivamente conquistato dalla storia, se non teleologicamente, cioè come fine. È uno sviluppo. E la storia è il palcoscenico dello Spirito, il palcoscenico di questo sviluppo di contenuti che sono metastorici. Se li dovessi studiare isolati dal loro farsi evento, dal loro farsi ente, studierei il logos astratto, fatto di pure essenzialità, cioè l’insieme di tutte le configurazioni con cui il pensiero, il logos, mi permette di interpretare il mondo. Io interpreto il mondo a partire da un pensiero che è mio, tuo, degli altri, tutti partecipiamo di un unico pensare universale che è la condizione preliminare di ogni conoscenza, è il nostro sistema operativo, il nostro software, che tramite l’hardware e le periferiche (la sensibilità) mi permette di comunicare, di partecipare ad una rete di connessioni, di far parte di una intersoggettività, di connessioni. Certo, ogni software è figlio di un tempo e di una cultura, a partire dall’ambiente operativo (OS X, Windows), giù giù fino ai linguaggi di programmazione, con cui, ancora più giù, creerò la singola App o il singolo programma. L’idea di un unico linguaggio macchina che sta dietro a tutti questi diversi livelli di programmazione è l’idea di un software universale, le sue regole, sono le regole che usano tutte le singole macchine, i singoli computer, che lo sappiano o no. Che ne siano consapevoli oppure no. Io digerisco, anche se non conosco ogni singola fase della digestione. Anche se la ignoro del tutto, la digestione farà comunque il suo mestiere. Così è anche il pensiero. Pensa pure se non mi accorgo di farlo. Pensa pure se non mi pongo il problema di pensare. Pensa pure se ne ignoro le regole. La Logica speculativa di Hegel ha avuto tanti epigoni entusiasti, che hanno semplicemente ripetuto la lezione del Maestro. McTaggart è un discolo, diciamo così. Non si accontenta. Vuole migliorare. Correggere non vuol dire mancare di rispetto. E allora si toglie le pantofole in segno di devozione, come si fa in un luogo santo. E si mette sotto. Quello che ne esce è un rapporto alla pari, senza timori reverenziali. Questo funziona, questo no”.
In che modo è possibile attualizzare l’autore in questa fase storica?
“Oggi va di moda la tendenza opposta. Oggi il sapere si è parcellizzato e le varie parti non sono nemmeno più in dialogo tra di loro. È il destino che è toccato in sorte alla stessa filosofia. Ieri era la scienza fondante, appunto, perché la logica in qualche modo è epistemologia, sta prima. Oggi la filosofia si è frantumata. Non cerca la totalità ma si accontenta di studiare il particolare. Non persegue più come obiettivo l’et-et, cioè la correlazione, ma l’aut-aut, la disgiunzione. Così esiste l’estetica, la politica, la filosofia morale, la teoretica, la filosofia della scienza e così via. Ambiti disciplinari che non ambiscono più ad avere una visione organica dell’esistente. Sta già qui l’inattualità di Hegel, nel pensare una filosofia forte, che voglia conoscere le cose. Dopo Hegel la filosofia si è messa a piangere, ci ha detto che conoscere è vanità, che siamo una zanzara svolazzante nel cosmo, che Dio è morto e con lui ogni tentativo di mettere ordine sui dati della scienza che, senza una guida sicura e un punto di riferimento, è una scienza a culo, un puro collezionare e catalogare dati empirici. Come collezionare farfalle, e saperle chiamare, conservandole in una teca di vetro. Le conosci, cioè le classifichi, ma non conosci il loro volare e non conosci il prato. Non possiamo conoscere un’oggettività senza conoscere a fondo il soggetto che la interpreta”.
Hegel per lei non è una novità..
“Ho già proposto Vita di Gesù. La Passione di David F. Strauss. Anche Collingwood ha proposto una visione della storia urticante rispetto al neopositivismo inglese. E la sua teoria estetica è stata fortemente influenzata da Croce e Gentile. Abbiamo proposto in italiano Lo svanire della ragione che abbiamo presentato ad Oxford in un importante convegno internazionale. Ora Augusto Vera e McTaggart. Più in generale ho proposto di leggere Hegel con Mazzini. Non una comunità di atomi individuali dove ognuno fa il cazzo che gli pare, non uno Stato autoritario che va a inseguire tutte le emergenze per governare per decreto e calpestare tutti i miei più elementari diritti, consentendomi a condizione cose che mai avrebbe potuto togliermi, ma uno Stato fatto della libertà di tutti i cittadini che lo compongono. In questo senso, nel dovere, cioè nella legge, io posso trovare la più ampia garanzia delle mie libertà”.
Ritiene che la nostra nazione abbia bisogno di approfondire maggiormente studio e comprensione di materie come la filosofia? È possibile farlo?
“C’è bisogno di studiare in generale. A Roma ogni mattina si alza un fregno, diceva Flaiano. Ed oggi, complici i social, il fregno dice la sua su tutti gli argomenti. Bisognerebbe studiare per tornare a restituire la complessità alle cose complesse. Io temo che oggi si tenda a semplificare, a banalizzare, a dare letture semplificate del presente. E questo porta a creare etichette comode, fatte per dividere, ed esasperare, esaltare il tifo. Tutto diventa occasione per autocelebrazioni morali di una parte sull’altra, perché siamo sempre i migliori, non ho mai sentito dire qualcuno dire: io ho torto. Nemmeno: mi sono sbagliato. No. Hanno sempre percorso il sentiero della Verità senza mai un tentennamento, una marcia indietro. E gli altri, solo che mettano in dubbio anche un solo passo, sono pro-Putin come ieri no-Vax. Purtroppo per questi talebani della comunicazione la realtà difficilmente si presta ad analisi del genere. La differenza la fa la cultura. Che alimenta il pensare altrimenti. Non è bianca o nera, o almeno non necessariamente. In genere è fatta di sfumature di grigio”.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
“Incontrare un mecenate che mi dia tanti soldi. E poi spendermeli”.
Tommaso Alessandro De Filippo
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