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Notturno romano. Distopia da virus

by Libero Baluardo
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Roma, 12 apr – Uscì dalla banchina con passo rapido, cercando di schivare gli altri passeggeri appena scesi dall’aeronave. Si muovevano come un gregge verso i gate del terminal 19. Dopo qualche minuto di insostenibile lentezza fu finalmente fuori dalla stazione. Nelle strade pullulanti di vita, quelle subito adiacenti l’ingresso ovest, cadeva incessante una pioggia fitta e tagliente. Si chiamava Via Giolitti quella strada. O almeno così si chiamava un tempo. Ora non avrebbe saputo dire con quale termine assurdo la gente del quartiere chiamava quella via, la cui targa una volta marmorea e leggibile adesso era coperta da una grafia orrenda che sembrava mischiare geroglifici e ideogrammi incomprensibili. Si ricordò della vecchia Via Giolitti. Si ricordò il traffico e i rumori. Ricordò i turisti accalcati sui marciapiedi e il frastuono dei clacson e i suoi attraversamenti coraggiosi, quando era un ragazzo appena iscritto all’Università, nel 2019. Erano bastati trent’anni per sostituire il rumore del traffico con quello di un mercato, un vero e proprio suq, che nel tempo aveva invaso le vie d’asfalto del quartiere. Era stata una trasformazione lenta, eppure molto repentina: prima le bancarelle abusive poi, piano piano, dopo il Decreto Thunberg sul Clima, le strade svuotate dalle autovetture erano diventate campo fertile per la crescita spasmodica di qualsiasi attività commerciale dei nuovi arrivati. Lentamente gli arabi, gli africani e la nuova ondata di asiatici in fuga dalla pandemia avevano occupato come un corpo fluido tutti gli spazi abbandonati dai bianchi.

Pausa.

Dal cielo plumbeo, la pioggia cadeva con un ritmo maggiore. Brillava nel riflesso delle luci dei maxischermi su cui si dimenavano le figure degli spot pubblicitari più fantasiosi e contorti: detersivi, bibite, il nuovo I-Neuro della Apple che si annunciava già come prodotto dell’anno 2049, la cara vecchia Coca Cola, i dentifrici per la cura orale. Cosa importa se la maggior parte dei bambini del quartiere non ha da mangiare e muore di fame al bordo delle strade? L’importante è che il loro arco dentale sia curato e scintillante. Pensò. Poi la Tv e il meteo che annuncia pioggia, ancora, per tutto il mese di luglio. Del vecchio luglio, quello delle estati in spiaggia con le hit latinoamericane, era rimasto solo il caldo. E anche le hit. Di quelle nessuno era riuscito a liberarsi. Il Sole era scomparso da almeno un decennio dietro un’infinita cappa grigia. Un velo onnipresente che ammanta tutto l’anno i cieli della vecchia capitale. Si asciugò la fronte madida di sudore, cercando di respingere il conato di vomito che gli provocava l’inspirazione dell’aria di città. Era come se tutte le friggitorie, i kebab e le pizzerie da asporto avessero aperto le valvole e scaricato al vento bollente un’esalazione rarefatta di percolato e spezie, merda e putredine. A questo caldo ci si abitua, pensò Andrea, ma alla puzza non c’è rimedio. Penetra anche attraverso le mascherine dei cinesi. Deglutì. Decise di non indugiare troppo nei pressi della stazione Termini. Di solito non era un posto sicuro, nemmeno di giorno in effetti, ma al calare della sera diventava il bivacco preferito della feccia meticcia, o peggio dei clan mafiosi nigeriani che nel suq avevano le piazze di spaccio migliori del distretto centrale. Non indugiò più, si coprì il volto con il logoro balaclava nero del padre, si sistemò i baveri della giacca impermeabile all’insù stringendo bene la zip sul naso. Poi mosse velocemente i suoi passi sui marciapiedi zuppi di acqua e sporcizia, facendo ben attenzione a non calpestare escrementi, o peggio carcasse di gabbiani ammuffiti, o ancora peggio qualche clochard spalmato a terra come una salsa. Sentì il sudore scendere dalle tempie, ma preferiva crepare di caldo piuttosto che lasciare la sua pelle scoperta sotto la pioggia. Meglio il mio sudore, pensò. Meglio il mio sudore all’acido!

Scese verso la vecchia Via Gioberti, diventata come quelle favelas che vedeva nelle foto dei suoi tempi, quelle di Rio o Medellin. Solo gli sembrava avessero quel tocco in più che solo arabi, nordafricani e sub asiatici sapevano dargli. Quel tocco di minareto e filo elettrico penzolante tra i fumi delle cucine all’aperto. La nuova Roma dei meticci si offriva in tutto il suo fetido splendore. Accanto a lui fremeva la vita irrequieta di migliaia di venditori ambulanti di cianfrusaglie tunisini, degli alimentari di terz’ordine del Bangladesh e degli immancabili cinesi con il loro carico di elettronica di quarta mano. E poi i negozi di souvenir e gadget per turisti scemi, pieni di tedeschi con i sandali e americani trasudanti grasso appena consumato al KFC. L’unico traffico, oltre a quello umano, era quello dei riders indaffarati a portare cibo da un punto all’altro della città. Un nugolo di omuncoli di ogni colore intenti a pedalare sotto la pioggia per una paga da fame e un posto in prima fila alla fiera dei ricchi signori della city, troppo grassi e pigri per procurarsi la cena da soli. Tante piccole formiche che portano il bolo alla regina grassa, pensò Andrea cercando di schivare la corsa cieca di un mulatto di Gloovo. Solo che le regine erano molte e il grasso dei loro corpi era inerme e improduttivo come la loro ricchezza. Una ricchezza ottenuta con un mediocre impiego nelle boutique firmate del centro o nei mega store della Apple. Ormai si paga solo l’intrattenimento, si disse guardando gli ologrammi pubblicitari scorrere su ogni superficie utile. Era uno show continuo. Potevi uscire di casa la mattina, andare a lavorare per diciotto ore e tornare con l’impressione di non aver mai spento la televisione. Non ti abbandona mai, pensò, come quel brivido sotto pelle causato dallo squillo dei nuovi NeuroPad. Lo senti arrivare, come un cane avverte la scossa di terremoto che serpeggia sotterranea. La notifica ti arriva fino al midollo per scuoterlo e ridurlo ad una poltiglia di zero e uno.

Brivido.

Cercavano di venderti tutto giù in strada. Dall’alcol alle puttane. Per tutti i gusti. Bastava solo pagare e poi seguire le staffette negre agghindate come pop star nei meandri dei palazzoni ottocenteschi, ormai abbandonati e occupati dai meticci come un alveare. Ti avrebbero venduto anche le loro madri. Se solo le avessero conosciute, certo. La maggior parte della popolazione meticcia era frutto delle prime generazioni di parti in vitro, uteri in affitto e genitori surrogato. Non avevano famiglia, non conoscevano altro legame se non quello con loro stessi. Cresciuti come conigli in qualche cooperativa sociale che il giorno li faceva lavorare ai campi e la notte gli insegnava in classe la neolingua dei cittadini del mondo. Uno slang incomprensibile, frutto dell’ingegneria di sapienti cervelloni che volevano riportare il mondo alla Babele poliglotta e indivisibile dell’Antico Testamento. Ciò che nacque fu solo un dialetto che presto sostituì le vecchie lingue. Facile, immediato, animalesco. Quasi privo di sintassi. Un incomprensibile serie di suoni sconnessi senza alcun senso per Andrea, indaffarato a respingere le moleste avances di una puttana slava.

Era maschio? Era femmina? Non saprei, si disse, ma dopotutto a chi importa ormai? È già molto, si disse, se riesci a distinguere in un viso il colore della pelle, il colore degli occhi, una ruga sulla fronte o un capello bianco. Il corpo è diventato un giocattolo da modificare a piacimento: l’importante è non avere più l’impressione di invecchiare, non avere più responsabilità legate al sesso, agli anni che passano inesorabilmente. “Senza genitali siamo liber*!”. Ripensò a quel motto, che trent’anni prima campeggiava sui muri della Facoltà di Lettere di Roma Tre e invitava le giovani ragazze alle auto mutilazioni chirurgiche. “In fondo lo fanno gli Ebrei e i sub sahariani, perché non noi?” gli disse una volta Claudia, la sua compagna di studi imbevuta di progressismo a buon mercato. Ricordava la sua voce. I suoi occhi erano bellissimi ma persi in uno strano e angoscioso vuoto. Chissà che fine ha fatto poi, quando arrivarono gli anni della guerra al maschio e le prime castrazioni su segnalazione. Gli anni dell’avvento di Mom, la I.A. che invase ogni spazio della vita umana attraverso le connessioni wi-fi, i neuro-pad e i conti bancari. Gli anni della paura permanente per l’influenza cinese, gli anni della “cura”. Un processo quasi messianico ad ogni forma di mascolinità e femminilità. Una guerra santa-laica, scientifica e maniacale, che iniziò ad usare le trasformazioni chimiche e genetiche per togliere a chi vi si sottoponeva ogni ormone sessuale e ogni manifestazione fisiologica del genere. Andrea vide i primi “grigi” negli anni venti. Esseri senza sesso, informi e glabri come larve. Erano soprattutto ricchi benestanti a pagare per questo costoso processo che li rendeva alla moda e interessanti agli occhi della società. Mentre le persone morivano di fame nei quartieri e si massacravano con gli allogeni per i beni primari, qualcuno pagava per levarsi le palle o ricucirsi la vagina. È stato questo l’andamento negli ultimi decenni. Una grossa forbice tra realtà e utopia che si è allargata fino a spezzarsi.

Passò veloce, attraversando l’incrocio con una via buia eppure molto lunga. Scendeva fino alla vecchia Piazza Vittorio, illuminata dal grosso neon di un centro commerciale. Sentì un brivido corrergli nelle gambe, mentre cercava di vedere nell’oscurità la targa della via. Era distrutta, cancellata e coperta di geroglifici. Ma riusciva a distinguere chiaramente quattro lettere dell’antica grafia. “EONE”. Non riusciva a ricordare il nome intero. Si infastidì parecchio. Fissò ancora la via oscurata che correva giù fino alle luci della piazza. Gli sembrò quasi che la via fosse stata volutamente lasciata al buio a tomba della sua memoria. Davvero non riusciva a ricordare, per quanto si sforzasse, cosa ci fosse lì. Come se qualcuno avesse messo mano alla sua memoria e cancellato con un tocco qualcosa che prima c’era e che ora aveva lasciato solo un’ombra indistinta nel suo cervello. Aveva sempre pensato che i ricordi fossero il suo bene più prezioso, si vergognava con sé stesso ora che quella via buia aveva richiamato in lui la sgradevole sensazione di vuoto comune alla maggior parte delle persone del pianeta Terra. Deve essere successo qualcosa qui, qualcosa è andato storto, ad un certo punto. La sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato intorno a lui non lo abbandonava mai. Come se la storia non avesse seguito il suo corso, come se qualcuno fosse arrivato a cancellare e a riscrivere sui neuroni del suo cervello una storia diversa. Quand’è stato il preciso istante in cui ogni cosa è andata a puttane? Ma lì, davanti all’oblio di un semplice nome, quella sensazione si ingigantì fino a provocargli le vertigini. Meglio proseguire, pensò con sgradevole vigliaccheria.

Arrivò giù finalmente, alla piazza con la colonna. Le macerie diroccate della Basilica di Santa Maria Maggiore sovrastavano le baracche di lamiera della bidonville, da cui spuntavano piccoli fuocherelli e rigagnoli di fumo nero come il petrolio. Ci vivevano gli ultimi romani rimasti, gli ultimi uomini e donne scampati alle purghe ma condannati all’emarginazione e alla povertà. Nonostante la Basilica fosse in rovina e sventrata dai bombardamenti, Andrea la guardava ancora estasiato, come quando era il giovane studente universitario che passeggiava con Lei, mano nella mano, sotto un limpido sole di maggio. Non dimenticava mai di buttarci un occhio, nemmeno quando la fretta muoveva i suoi passi. Come ora, che qualcosa di importante stava per succedere. Il campanile spezzato e la cupola aperta come una noce sotto il cielo nero offrivano un macabro simulacro di un tempo perduto nelle ceneri delle Guerre di Religione. Quando su Roma iniziarono a piovere le bombe della Jihad, le basiliche furono i primi simboli ad essere colpiti dall’ira iconoclasta degli attentatori suicidi. San Pietro, San Giovanni, San Paolo. Rase al suolo. Pochi anni erano bastati per cancellare i monumenti innalzati a Roma nel corso dei secoli. Nessuno pensò al restauro, in fondo quelle chiese erano già vuote prima della Guerra, non servivano più a nessuno. La Chiesa morì con l’ultimo Papa, soffocata sotto il peso di quelle riforme che aveva contribuito a diffondere. Le chiese si svuotarono, le moschee si riempirono, i centri commerciali esplodevano di fedeli in estasi consumista. Il Papa morì lasciando il nulla dietro di sé. Ma Andrea non aveva mai visto la cristianità in quella basilica, lui che cristiano non era mai stato. Nelle macerie diroccate vedeva piuttosto la fine di una civiltà, ormai ridotta allo stadio terminale. L’Italia, l’Europa erano diventate altro rispetto a ciò che erano state nel corso dei millenni. Ormai c’era di tutto in Europa: l’Asia, l’America, l’Africa. Tutto tranne l’Europa. Tutto tranne l’Italia, la Germania o la Francia. Tutto tranne gli europei. Castrati nel corpo e nella mente da decenni di colonizzazione. Qualcuno pensò che in fondo quella troia di Europa aveva avuto ciò che meritava. Forse, pensava Andrea, quando la stessa Claudia dei diritti gender cercava di spiegargli i danni dell’imperialismo europeo al mondo. Erano passati tanti anni dall’Università e dalle sue chiacchierate con la ragazzina di lettere nella Biblioteca di Facoltà, quando la pioggia cadeva bagnando i vetri. Ma a quel tempo era solo pioggia e non un bagno di acido da batteria. Eppure, non le aveva dimenticate, ora che quelle parole che al tempo gli suonavano retoriche avevano raggiunto il calibro di vera e propria profezia. Forse, ma… nonostante tutto, nonostante il tempo, Andrea come pochi altri sosteneva ancora che nel grigiore della nuova Roma cosmopolita le rovine, seppur diroccate, erano ciò che di più bello si potesse ammirare. Chissà ancora per quanto. Almeno fino a quando McDonald non deciderà di avere una sede più grande e allora i ruderi del Pantheon e del Colosseo faranno spazio alle nuove cattedrali del consumo.

Passo veloce.

Sono arrivato in tempo, disse rivolgendo un sorriso a Lucia, l’infermiera che seguiva il dottor Stefani dell’Ordine dei Cavalieri, nell’infermeria da campo allestita proprio sotto i portici della Basilica. Andrea viveva lì tra i baraccati da anni, sulla piazza di mezzo tra la city ricca e la Termini meticcia. Qui trovarono riparo con Lei dopo la Guerra. Lei, Anna, il suo unico amore, stava per partorire. Avrebbe voluto di più per il loro amore, avrebbe voluto una casa da curare e una vecchiaia da consumare leggendo i suoi libri mentre lei avrebbe curato le piante del giardino. Un figlio era stato qualcosa di inaspettato per entrambi. Una benedizione di chissà quale Dio. Un segno inaspettato anche per il piccolo “quartiere”, per Roma, dove non si registrava una nascita da almeno quindici anni. Si passò le mani sulla fronte togliendo il pesante balaclava dal viso. Vide Anna. Era arrivato giusto in tempo. Dal ventre della basilica si alzò un canto rumoroso che invase le navate vuote e polverose. Attirò gli altri abitanti della piazza sulle scalinate grigie come il fuoco con le falene notturne. Il pianto del bambino catturò l’attenzione di tutti distogliendoli dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza. Era un pianto forte e vigoroso, un urlo di vita che si placò solo quando Anna lo prese dalle mani dell’infermiera e lo strinse a sé. Che nome vogliamo dargli a questo bel maschietto? Gli chiese sorridente Anna mentre guardava fisso il suo bambino. Gli occhi scuri, il pianto acuto. Un grido di gioia. Andrea si avvicinò e con una carezza tolse una ciocca bionda dal viso stremato della donna. Poi ripensò a tutto il suo tragitto, a ciò che era stato. Sentì qualcosa ribollire, farsi strada a forza tra il caos di pensieri nel suo cervello. Arrivava dal profondo, come se il suo Dna si fosse messo ad urlare, come un richiamo di qualcosa che non riusciva a vedere ma solo sentire, qualcosa che credeva di aver perso nel tempo. Perso nel lavoro, perso nella sua vita passata in balia degli eventi, perso nell’attentato in cui morirono suo padre e sua madre, quando i jihadisti capirono che colpire un centro commerciale era più proficuo che colpire una chiesa, perso negli occhi della sua amica che credeva di amare ma non era riuscito ad aiutare, perso nei suoi studi che non gli servirono mai, perso in ogni angolo buio del quartiere e in ogni singolo frame di spot pubblicitario. Si era perso, ma anche lui si era fatto strada nel buio e nell’oscurità in tutti questi anni per ritrovarsi lì, in quel preciso istante. Era qui ed ora che serviva un po’ di luce. E allora lo vide chiaramente davanti ai suoi occhi, si guardò intorno e poi tutto fu chiaro e limpido. Allora ricordò. Prese a sé il bambino e alzandolo sorrise ad Anna.

Ti presento Napoleone! Disse con un sorriso.

E fu così, che ricominciò la vita a Roma.

Libero Baluardo

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