Roma, 17 dic – Per testare la bontà di una causa basta osservarne i promotori: dove si annidano astio, seriosità, moralismo e nervosismo, si è al cospetto di una causa fatta per ressentiment. Che questa sia la fotografia impietosa dell’impegno civile della sinistra nostrana è evidente, specie in un periodo in cui tutto il vuoto di cui si è riempita la bocca per anni viene inesorabilmente a galla.
Non stupisce granché scoprire un altro tassello di questa falsa buona coscienza, che coinvolge questa volta la poetessa Alda Merini, morta nel 2009. Ci ha pensato la regista Antonietta De Lillo col docufilm La pazza della porta accanto uscito i primi di dicembre a ribaltare gli stereotipi progressisti e femministi a cui per anni era stata costretta la figura della scrittrice.
Si tratta di un’intervista risalente al 1995 dove la Merini parla di se stessa in tranquillità, mostrando una donna molto diversa da quella dipinta dalla sinistra nostrana in cerca di testimonial di prestigio. Lei, che per anni è stata arruolata dal mondo femminista nelle sue guerre di liberazione femminile e al sostegno dell’interruzione di gravidanza, appare in tutta la sua sofferta autenticità. Una donna in cui è ancora vivo il dolore per essere stata privata dei figli dopo l’internamento in manicomio e che parla del suo «fortissimo istinto materno».
La sua stessa arte poetica acquista senso da una profonda religiosità, perché l’atto di creazione artistica è un modo per avvicinarsi a Dio. Ugualmente, l’amore tra uomo e donna è per la Merini un gradino verso la grande perfezione che è l’armonia di contrari. Partendo da questi presupposti è allora facile capire il punto di vista della poetessa su certe posizioni che le erano state arbitrariamente attribuite: «Non capisco proprio il femminismo. La donna che vuole diventare uomo sovverte tutta la cultura passata. La donna deve essere se stessa».
Lei che non riuscì mai a comprendere le cause progressive dell’emancipazione della donna attraverso l’aborto, ribadì in altra occasione che «il vero diritto di una donna è quello alla maternità: il figlio è il più grande atto d’amore e il suo mistero resta intatto. L’occasione che la madre dà al suo bambino è ogni volta un miracolo, ed è una bestemmia negare tutto questo in nome di un femminismo che è l’opposto dell’essere femmina, nel senso più alto del termine».
Le femministe fuori tempo massimo e tutta la sinistra orfana di cause migliori che non siano truculente campagne contro la gioia di vivere in tutte le sue forme, farebbero bene a rileggersi le parole della Merini: «Queste controversie su vita o morte di un figlio mi lasciano senza parole. Noi un tempo ci donavamo al nostro compagno con tutta la dedizione corpo-spirito e il bambino era una benedizione. Non so niente di pillola abortiva o del giorno dopo: non erano di moda. Le donne giovani che mettono in bocca all’anziano certe parole sbagliano, perché noi eravamo ben lontani da questo “utilizzo” del bambino. Posso soltanto dire che dopo i dolori del parto subito dimenticavo quella crocifissione per gioire della vita nuova. Non sono in grado di dare altri giudizi e sono ben lontana dal fare politica o dall’essere femminista, solo vorrei che tra uomo e donna si stabilisse quell’intesa meravigliosa che si chiama amore, in cui il figlio rappresenta la chiave della verità».
Nel 2008 la rivista “MicroMega” promosse un appello contro “l’offensiva clericale contro le donne”, arruolando, a sua insaputa, la Merini tra le prime firmatarie (assieme a Cristina Comencini, Rossana Rossanda, Isabella Ferrari, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Fiorella Mannoia, Dacia Maraini e Lidia Ravera). La poetessa smentì di aver mai firmato, ma oggi resta viva l’impressione che costringere il nome di una donna a una causa che non ha scelto, sia un gesto ben poco femminista e del tutto irrispettoso della sua libertà di scelta.
Francesco Boco