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Quando Battiato tratteggiò il mondo distopico in cui siamo sprofondati

by Eugenio Palazzini
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battiato, cantante

In occasione dell’anniversario dalla sua scomparsa ripubblichiamo questo articolo su Franco Battiato — di Eugenio Palazzini

Roma, 18 mag – Franco Battiato è andato oltre e oggi si sprecheranno fiumi di inchiostro sul misticismo manifesto di chi, assieme all’adelphica penna di Sgalambro, ha descritto la realtà che si cela fuori dal reale. Reale, o presunto tale, direbbe lui, perché irreale è anche l’Io che lo concepisce. C’è in effetti un Battiato essenzialmente impermanente e inafferrabile. Misantropo eppure amato da (quasi) tutti, perché in fondo indecifrabile. C’è chi in lui vede il richiamo all’origine, chi la stroncatura dei paradigmi tradizionali dati per inconfutabili. In fondo Battiato evocò di tutto: i presocratici, gli euclidei, gli induisti, i buddisti, i sufi, gli egizi, i riti tribali, Nietzsche, Guenon.

Il Magic Shop di Battiato

E insieme massacrò chi tutto questo invocava con superficiale cipiglio new age, nell’insuperabile Magic Shop. Perché se la falce non faceva più pensare al grano era al contempo vero che i Buddha ormai andavano sopra i comodini. Materia e spirito travolti dal nulla. Erano gli anni dei mantra venduti a mille lire, degli Hare Khrisna che importavano per le strade d’Europa l’esotismo del lontano subcontinente. E pure del gossip religioso, con “le rubriche aperte sui peli del Papa”. Ma erano anche gli anni di Battiato, sempre guidato dal tagliente e sprezzante gnosticismo di Sgalambro, che deduceva da una frase del Vangelo “che è meglio un imbianchino di Le Corbusier”. Non tutto il preteso misticismo è assente da materialismo.

Oltre l’esegesi stucchevole

E’ però stucchevole, forse inutile, darsi all’esegesi dei testi di chi ben più prosaicamente ha saputo emozionare milioni di italiani. Li ha fatti cantare, li ha fatti divertire, li ha accompagnati nella “stranizza d’amuri”. Qualunque cosa si pensi della sua musica, comunque la si legga, per la gran parte degli ascoltatori quelle erano soltanto bellissime canzoni. E va bene così, perché se non lo fossero state tutta l’interpretazione dell’apparato iconico da lui costruito non avrebbe alcun senso. Semplicemente nessuno se lo sarebbe filato.

Ipercontrollo e distopie, dunque il nostro mondo

Così come in pochi hanno considerato Fetus, il primo album di Battiato, il meno mistico e al contempo forse il più filosofico. Roba di nicchia, si dirà. Di ascolto difficile, poco d’impatto. Correva l’anno 1971 e l’artista catanese aveva appena 26 anni. Cantava allora ispirandosi a uno dei libri cardine della distopia narrativa: Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley. “È incerto il processo mentale. La voce è marmo e cemento. Vivo malgrado me stesso. Difficile attuare il controllo. Attorno i miei occhi c′è nebbia”, scandiva meccanicamente Battiato. “Meccanici i miei occhi. Di plastica il mio cuore. Meccanico il cervello. Sintetico il sapore”.

Di cosa parlava, cosa voleva far emergere? Nient’altro che quel limbo esistenziale in cui ci troviamo e in parte già ci trovavamo qualche decennio fa. Adesso c’è stata soltanto un’accelerazione verso l’ipercontrollo mentale, un nuovo reset, un nuovo mondo delle meraviglie che non meravigliano più. Battiato tratteggiava il futuro gettando elettronica, ante litteram, in un romanzo visionario degli anni trenta. “Processo di magia. Processo forse cieco. O forse illuminato. Da memoria senza passato”. Inquietudine della robotica, fascinazione e incubo di quello che sarebbe stato. E che forse è, adesso.

Eugenio Palazzini

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