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«Quando i migranti eravamo noi»: ovvero come si crea un falso storico

by Tommaso Indelli
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migranti

La massiccia immigrazione extracomunitaria sta suscitando un acceso dibattito politico-culturale, spesso alimentato da autentici «miti», destituiti di ogni fondamento razionale, la cui finalità è di giustificare il presente attraverso la consapevole manipolazione del passato.

L’emigrazione italiana

Iniziamo con l’affermare che non è possibile alcun paragone tra le migrazioni di millenni o secoli fa e quelle attuali, come viene costantemente ripetuto nei programmi televisivi o sulla stampa quotidiana. Quello che manca sempre, in pseudo-ragionamenti di questo tipo, viziati dal «politicamente corretto», è sempre la storicizzazione dei fenomeni, la contestualizzazione dei fatti a cui ci si riferisce, nella loro specifica dimensione spaziale e culturale. Bisogna ribadire che non è possibile sovrapporre, ad esempio, le migrazioni indoeuropee dell’età del bronzo o del ferro, dirette verso territori in gran parte spopolati, ricchi di risorse economiche, con quelle attuali, dirette verso un continente già densamente popolato e attanagliato da dinamiche demografiche pericolosissime per le popolazioni autoctone. Né tantomeno – ed è questo uno degli argomenti più frequentemente citati – è possibile paragonare l’emigrazione italiana verso le Americhe con gli eventi del presente.

Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di gennaio 2018

Infatti, il ragionamento «politicamente corretto» suona più o meno così: poiché siamo tutti migranti – il che non è vero – o i nostri nonni e bisnonni lo furono, è necessario accogliere! Iniziamo allora col dire che gli italiani non furono i soli ad emigrare, perché l’emigrazione fu un fenomeno di massa – determinato da ragioni economiche e non solo – che coinvolse, nel solo Ottocento, circa 70 milioni di europei – di cui 35 diretti negli Usa – ma anche asiatici, e fu diretta verso terre «vergini», da colonizzare, con bassa densità abitativa per kmq, ricche di risorse (oro, argento, minerali, petrolio) su cui mettere le mani, sottraendole agli aborigeni che, nella gran parte dei casi, non sapevano che farsene[1].

America accogliente con i migranti?

L’America, inoltre, non fu l’unico territorio interessato da migrazioni finalizzate, per lo più, al popolamento, ma lo furono anche Australia, Nuova Zelanda e altri dominion britannici, oltre ad alcuni specifici possedimenti coloniali africani, come il Sudafrica o la Rhodesia. Ovviamente, quando si riportano fatti del genere, per legittimare fenomeni attuali, ci si dimentica consapevolmente del destino riservato dagli emigranti alle culture indigene, «integrate a forza» nel sistema sociale loro imposto, con pesanti ricadute sulla coesione etno-culturale di quei popoli, con conseguenze che si fanno sentire ancora oggi.

C’è inoltre il problema etnogenetico. Gli Stati americani, sino al XIX secolo, non erano ancora diventati «nazioni» definitivamente formate e ad essi mancava fin dalle origini un’omogeneità razziale ed etnoculturale di fondo – cosa che, ancor oggi, continua ad essere una loro caratteristica specifica. D’altronde, l’«uomo meticcio» è l’essenza dell’autentico «americanismo» e questo peculiare sviluppo antropologico (melting pot) ha contribuito a forgiare un’immagine del tipo umano di quelle società totalmente diversa dall’homo europeus. Si pensi al mito del «pioniere», vero self made man che, di qualsiasi provenienza etnica fosse, aveva la possibilità – sfruttando l’elevatissima mobilità sociale e le opportunità del Nuovo Continente – di realizzare gran parte delle sue aspirazioni. Era interesse dei governi di quei Paesi promuovere l’arrivo di «colonizzatori» che contribuissero all’edificazione di società «in costruzione» e, solo per fare un esempio, basti pensare all’importanza che per gli Usa ha avuto, nel forgiare la loro identità, il mito del Far West, della «frontiera», dichiarata ufficialmente chiusa solo nel 1891[2].

Qualsiasi persona di buon senso può constatare come, oggi, il continente europeo sia così lontano da tutto questo, perché gli immigrati che giungono qui e intendono stabilirsi definitivamente – qualsiasi siano le loro, pur legittime, aspirazioni – non sono assimilabili al pioniere ottocentesco o ai conquistadores del XVI sec., perché attualmente, in Europa – e in Italia – non c’è nessuna «avventura» da sperimentare, nessun Far West, sempre ammesso che queste epopee siano state tali anche per le culture aborigene[3].

Leggi anche: La strage di Marcinelle e la retorica dell’accoglienza

Inoltre, pur con tutti i distinguo del caso, è totalmente falsa anche l’idea che nei Paesi di immigrazione non vi fossero leggi che disciplinavano, anche severamente, l’ingresso degli allogeni. Negli Usa, ad esempio, la legislazione federale era molto severa ed escludeva ladri, prostitute e anarchici (il fatto che tale legislazione potesse essere violata è un altro discorso) o, addirittura, stabiliva un contingentamento degli immigrati sulla base della provenienza etnoculturale. Si pensi che alcune leggi varate dal Congresso (Quote Acts) negli anni 1921-1924, dopo la prima guerra mondiale, stabilirono addirittura un «limite massimo» all’immigrazione proprio sulla base del Paese di provenienza. Si trattava di leggi che, se varate oggi in Italia o in qualsiasi Paese della Ue, farebbero gridare al «razzismo», portando in piazza migliaia di persone ma che, in realtà, si fondavano sul presupposto reale che non tutti i gruppi allogeni sono assimilabili allo stesso modo – e con la stessa facilità – dalla cultura del Paese che accoglie.

Nel caso specifico, i Quote Acts miravano a salvaguardare gli «equilibri etnici» interni agli Usa, ponendo un limite agli ingressi soprattutto di immigrati di origine asiatica e del Sud ed Est Europa, al fine di conservare la preminenza numerica e politico-economica della componente Wasp (White Anglo-Saxon Protestant) della società statunitense – componente etnica che, nel bene e nel male, fin dal 1776 aveva retto i destini della repubblica federale e ne aveva determinato, con l’ingresso nella prima guerra mondiale, l’ascesa al ruolo di superpotenza mondiale[4].

Migranti: risorse o problemi?

E veniamo ad un altro autentico «mito» – continuamente sbandierato – cioè l’dea che l’immigrazione extracomunitaria possa rappresentare un’opportunità irrinunciabile di sviluppo, soprattutto culturale, per i popoli europei. È chiaro – anche ai più sprovveduti – che l’immigrazione di oggi non possa essere messa seriamente a confronto con la «colonizzazione» europea del passato. In un mondo globalizzato, infatti, le tecnologie sono pressoché le medesime, l’auto ed il telefono sono utilizzati (quasi) dappertutto. L’allogeno che giunge in Europa non si trova certo di fronte a popolazioni bisognevoli di essere condotte sulla strada della «civiltà», con un livello di sviluppo equiparabile all’Età del bronzo o al Paleolitico, ignoranti delle più elementari tecniche costruttive, della ruota o delle armi da fuoco! Pertanto, l’affinità con fenomeni del lontano passato – più volte richiamata da illustri politologi e opinionisti attuali – può essere ricondotta solo ad un dato molto semplice: lo spostamento di uomini e il loro conseguente insediamento in un territorio diverso da quello di provenienza, ovviamente – giova ripeterlo – in un contesto storico caratterizzato da altissima densità abitativa e scarsità di risorse per tutti!

Ma i «miti» irrazionali contro cui è necessaria una forte presa di posizione sono veramente tanti. Sostenere – come si fa di continuo – che «l’immigrazione è una straordinaria risorsa economica, perché gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare», è falso, perché dipende dalla prospettiva con cui si guarda al fenomeno. L’utilità economica dei migranti, salvo rare eccezioni, è sotto gli occhi di tutti: proliferazione del commercio ambulante abusivo, caporalato, falsificazione di prodotti di lusso e alimentazione dell’imprenditoria nazionale parassitaria[5]. Le economie europee sono economie evolutissime e richiedono un’ampia specializzazione «tecnico-professionale» persino dell’operaio addetto alle mansioni più semplici. L’economia tecnologicamente evoluta richiede una dura selezione e non tutti gli immigrati sono «economicamente necessari», ma solo quelli in possesso di determinate competenze, e l’immigrato economicamente necessario non sarà inevitabilmente un «buon cittadino», perché l’utilità economica e quella politica non necessariamente coincidono.

Accogliere una massa enorme di manodopera dequalificata è assolutamente inutile all’economia e va a favore del più becero schiavismo, alimentando la concorrenza sleale con il lavoratore europeo che non è disposto ad accettare impieghi a condizioni salariali e previdenziali cui si presterebbe il lavoratore immigrato[6]. Infine, se si tiene in considerazione che la progressiva automatizzazione della produzione renderà sempre meno utile il ricorso alla manodopera (disoccupazione da ipersviluppo), ci si renderà conto dell’irrazionalità di certi ragionamenti.

La fandonia dell’arricchimento culturale

Riguardo poi ai decantati «benefici culturali» apportati dalle migrazioni e tanto esaltati da illustri sociologi e antropologi, essi sono pressoché nulli se confrontati con disagi come l’urbanizzazione selvaggia (con annessa formazione di slums), l’aumento della criminalità (anche autoctona, visto il business dell’accoglienza), lo sfruttamento servile di manodopera allogena da parte di una fetta consistente di imprenditoria parassitaria nostrana e, per finire, l’apertura di «ristoranti etnici», cui concedersi il lusso di qualche pranzo esotico, a base di kebab o sushi, quando le condizioni igienico-sanitarie lo consentano.

Purtroppo, le ricadute dell’immigrazione di massa sul sistema di vita del Vecchio Continente saranno pesanti ed investiranno tutti i campi, da quello antropologico-culturale a quello sociale, economico e politico, perché non può esistere Europa che non abbia, tra i suoi obiettivi primari – accanto a fini vagamente «umanitari» –  la preservazione di se stessa, della propria identità culturale ed etnica secolare, in una visione del Vecchio Continente che non sia solo sincronica, ma diacronica, in un rapporto di continuità culturale, spirituale, politica e biologica, con le generazioni che ci hanno preceduto.

Che cos’è, infatti, la «grande famiglia europea» tanto decantata, se non una serie di individui generati gli uni dagli altri nella continuità dello spazio e del tempo? L’immigrazione – con innesti allogeni di ogni tipo – annienterà questa continuità, creando un coacervo nuovo, assolutamente dissimile all’antico, frutto dell’eredità culturale e biologica greco-romana e germanico-slava, un’eredità che, a quanto pare, a nessuno importa preservare se non come polveroso monumento o come attrazione turistica economicamente spendibile.

Tommaso Indelli


[1] Sull’emigrazione europea del XIX sec. cfr. R. P. Coppini – R. Nieri – A. Volpi, Storia contemporanea, Pacini, Pisa 2005; E. Hobsbawm, L’Età degli Imperi (1875-1914), Laterza, Roma-Bari 1991.

[2] Sul «mito» della frontiera cfr. Ch. Chilton, La scoperta del Far West, Mondadori, Milano 1971; F. J. Turner, The Frontier in American History (1920), Dover, New York 2010.

[3] Sul genocidio indiano cfr. P. Chaunu, Storia dell’America latina, Garzanti, Milano 1955; P. Jacquin, Storia degli indiani d’America, Mondadori, Milano 1977.

[4] Sull’argomento è istruttiva la lettura di M. A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Bompiani, Milano 2000.

[5] Sul punto cfr. G. Damiano, Elogio delle differenze, Edizioni di Ar, Padova 1999, pp. 35 ss.

[6] T. Indelli, Europa e immigrazione. Osservazioni necessarie, Gaia, Salerno 2017, pp. 55 ss.

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2 comments

Germano 9 Luglio 2023 - 12:28

Sono completamente d’accordo con tutto ciò che è stato detto e questo lo sanno anche i demagoghi che pretendono di paragonare l’attuale invasione guidata da Soros e dalla sua setta satanica con obiettivi ben precisi, cioè destabilizzare l’Europa (divide et impera).
Posso parlare con cognizione di causa in quanto discendente di nonni e genitori emigrati in America, dove sono cresciuto. Ho parenti diretti lì e in Australia e l’emigrazione italiana di allora ha arricchito quei Paesi spopolati e senza cultura.
L’esodo verso l’Europa fa parte di un piano iniziato settantacinque anni fa e che, grazie alla passività degli europei e alla corruzione dei nostri politici di tutti i partiti, sta per essere ultimato a favore di una setta satanica che sta cercando di ridurre l’umanità in schiavitù al suo servizio e non ci sarà ritorno.

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La balla della sinistra pro-invasione: "Quando i migranti eravamo noi italiani". Ma è facile smontare questo falso storico - Rassegne Italia 10 Luglio 2023 - 10:57

[…] Infatti, il ragionamento «politicamente corretto» suona più o meno così: poiché siamo tutti migranti – il che non è vero – o i nostri nonni e bisnonni lo furono, è necessario accogliere! Iniziamo allora col dire che gli italiani non furono i soli ad emigrare, perché l’emigrazione fu un fenomeno di massa – determinato da ragioni economiche e non solo – che coinvolse, nel solo Ottocento, circa 70 milioni di europei – di cui 35 diretti negli Usa – ma anche asiatici, e fu diretta verso terre «vergini», da colonizzare, con bassa densità abitativa per kmq, ricche di risorse (oro, argento, minerali, petrolio) su cui mettere le mani, sottraendole agli aborigeni che, nella gran parte dei casi, non sapevano che farsene[1]. […]

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