Roma, 16 feb – Pensate ad un film improntato sul più vile luogocomunismo razzista del tipo: ebrei ladri, negri stupidi, arabi violenti, cinesi viscidi, tedeschi nazisti. Traslatelo in una melensa salsa politicamente corretta per cui, in realtà, gli unici di cui si può realmente parlare male sono gli italiani. Conditelo con battute che l’autore stesso ha già sperimentato cento volte, una regia dilettantesca, un paio di camei sensati quanto una affilatrice per il burro, ed avrete Italiano medio, il nuovo “capolavoro” di Maccio Capatonda, dimenticabile narratore di umane miserie.
Ora, che gli italiani fossero fondamentalmente autorazzisti l’abbiamo già scritto più volte, e del resto se ne lamentavano signori non secondari quali Dante e Machiavelli, quindi la cosa non deve stupirci. Ma che addirittura fossero masochisti, come sembra dimostrare il successo di questi film del filone antitaliano (in cui possiamo tranquillamente annoverare anche quella immensa sciocchezza de “La grande bellezza” o quella clamorosa noia de “Il capitale umano”) risulta cosa nuova.
Forse non è ben chiaro ai pochi che hanno riso alle battute stantie del Maccio quale fosse il senso del film: l’italiano medio che dà il titolo al film, ed in cui il protagonista non si riconosce, è fondamentalmente un minorato mentale, che usa un decimo dell’intelligenza normalmente usata dagli altri. Per cui, l’unica soluzione per essere felici, per sentirsi socialmente integrati, per essere come gli altri è…inibire chimicamente il proprio cervello.
Da quel momento parte una nuova vita per il nostro eroe, un tempo vegano (perché una persona intelligente ovviamente non può che essere vegana) ed ora carnivoro, un tempo beneducato (anche se alla quarta o quinta volta che ripete la battuta “hai rotto il pene” per non dire “cazzo” viene voglia di uscire dalla sala) ed ora volgarissimo, un tempo onesto ed ora teppista, un tempo fedele alla bella fidanzata ed ora amante della milf della porta accanto, un tempo lettore ed ora videogiocatore.
Una ridda di luoghi comuni e trovate infantili, come l’idea di riprendere il protagonista “buono” con colori da documentario Rai anni ’80, e quello “cattivo” con accesi colori ultrasaturi. E gli ambientalisti, e gli attivisti, e il crudele magnate senza scrupoli (a proposito: cambiare il ruolo ai tuoi personaggi ogni tanto no?) e la storia d’amore che vince su tutto, e il prevedibilissimo colpo di scena finale, e Scanzi che non si sa bene cosa faccia ma lo fa ovviamente da perfetto piacione radical-chic, e tutta la serie dei giochi di parole a cui siamo oramai assuefatti senza che questo comporti alcuna particolare identificazione. Anzi, la sensazione è semplicemente quella di un fastidioso già visto, di qualcosa che magari in uno sketch di cinque minuti sarebbe andato benissimo, ma che in 90 rompe veramente i “testicoli”, come direbbe il protagonista nerd.
Ma non è questo il punto: il punto cari registi, è che avete rotto il pene. È facile fare gli antitaliani nel paese che ha consentito per decenni a Bocca di vomitare su carta le sue sciocchezze, che santifica un Saviano qualunque, che rimane incollato davanti a Fazio. Molto facile fare un film in cui, alla fine, la morale è che in Italia “si può benissimo essere vegetariani e mangiare il porco fritto”, come chiosa il finale. Facile come è facile in Francia disegnare vignette blasfeme ed irrispettose che non sfiorano minimamente il potere. Il bello è che sicuramente qualcuno scriverà che questo filMaccio è pure un’opera sociologica, impegnata, che fa amaramente riflettere. Del resto, si scrive così di tutti i film che fanno sbadigliare.
A questo punto possiamo iniziare a rimpiangere seriamente Banfi, Bombolo, Vitali, Montagnani e la Fenech. Facevano ridere, mostravano realmente i vizi e le virtù degli Italiani e non si prendevano minimamente sul serio. Perché prendersi sul serio è il modo più facile per indurre il prossimo a non prenderti sul serio.
Matteo Rovatti