Assisi, 4 ottobre – Oggi si celebra san Francesco, il patrono d’Italia, “il più santo degli italiani e il più italiano di tutti i santi”, come ebbe a definirlo qualcuno. Matteo Renzi si è recato ad Assisi per l’occasione.
Ma il Presidente non è venuto in un luogo santo con la povertà di spirito del lebbroso né con l’umiltà del santo: ha usato la superbia del primo della classe. “Io ho fatto il percorso inverso di Francesco, lui uscì dalla sua città per andare a Roma, a spiegare cosa stava accadendo qui, mentre io da Roma sono venuto qui da voi a spiegare cosa sta succedendo al Paese” – ha dichiarato Renzi. Come se fosse possibile istituire un paragone tra due figure che si trovano su piani completamente differenti. E poi il solito copione: riforme, ambiente ed ecologia, Italia che deve ripartire.
Che strana la storia che ha portato Renzi, che quando parla non sa dire altro che “io”, ad Assisi, dove Francesco predicava l’uccisone di ogni egoismo e cantava, nel primo documento poetico italiano, “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale”. Il riferimento è chiaramente alla morte dell’io che precede l’iniziazione. Si legge inoltre nella Regula bullata: “Non giudicare gli uomini […] ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso”.
Forse Renzi non sa che nella basilica di San Francesco, si trova scolpita, invisibile ai profani, una raffigurazione di Federico II, forse voluta da Frate Elia, compagno del santo e poi vicino a Federico II fino alla sua morte. Dei legami tra francescanesimo, alchimia ed ermetismo, parla Prospero Calzolari in un libro intitolato “Massoneria francescanesimo alchimia”.
E non si parla mai del rigore e della gerarchia che per Francesco erano funzionali ad uccidere l’io e ad elevare la comunità. Si legge ancora nella Regula: “Tutti i frati siano tenuti sempre ad avere uno dei frati di quest’Ordine come ministro generale e servo di questa fraternità e a lui devono fermamente obbedire”.
Influenzati dal renzismo e dal boldrinismo, si tende a vedere in Francesco una figura pietistica, quando Francesco incarnava il coraggio. Nel settembre 1219, quando i rapporti tra Cristianesimo ed Islam erano infinitamente peggiori di quelli di oggi, a Damietta incontra il sultano Malik al-Kamil, lo stesso che più tardi avrebbe incontrato Federico II. Ne nasce un dialogo asciutto e cordiale: l’Unità delle dottrine prevaleva sulle questioni politiche. Il sultano omaggia Francesco con dei doni prima della sua partenza.
Le “poche e semplici parole” che Francesco predicava hanno la loro raffigurazione nell’affresco della basilica inferiore che ritrae la predica agli uccelli. Tutto è nudo, secco e la narrazione si irradia dal gesto perentorio delle mani del santo. Tutto ciò stride con la loquela di Renzi.
Francesco dietro la semplicità virile, nasconde la grandezza, Matteo è venuto in luogo santo con un contenitore retorico che all’interno non conteneva nulla.
“Ad Eleusi han portato puttane”.
Roberto Guiscardo