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E se la rivoluzione conservatrice non fosse nata in Germania? Un’ipotesi controcorrente

by Giovanni Damiano
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rivoluzione conservatrice

Roma, 25 dic – Quando si parla di rivoluzione conservatrice, solitamente si fa riferimento a quella costellazione di idee, princìpi, proposte, autori, che ha avuto come suo luogo di elezione la Germania tra le due guerre mondiali. Una costellazione destinata però a mai davvero tradursi in concreta prassi politica. A meno che – ma è questione a dir poco controversa – non si legga il nazionalsocialismo non come tradimento delle istanze rivoluzionario-conservatrici, bensì come loro realizzazione.

Rivoluzione conservatrice: le radici storiche

Piuttosto, sono stati ben altri i contesti storici rispetto ai quali crediamo si possa parlare, a ragione, di rivoluzione conservatrice. Ossia di una vincente capacità di sfidare il potere dell’epoca al fine di creare qualcosa che fosse, al contempo, nuovo e antico. Alludiamo innanzitutto alla Repubblica olandese delle Sette Province Unite. Nata nel 1581 in aperta ribellione alla politica accentratrice del re di Spagna Filippo II e riconosciuta de facto dagli spagnoli nel 1609, venne poi pienamente legittimata a livello internazionale nel 1648 con la pace di Westfalia. La Repubblica federale olandese – non per una amara ironia della storia, si badi – sarà poi dissolta nel 1795 dalle armate francesi. Per essere trasformata in repubblica satellite della Francia prima, diventando poi un regno durante il periodo napoleonico. Ennesima testimonianza della violenza intrinseca al progetto rivoluzionario-napoleonico di esportare ovunque i princìpi della rivoluzione.

Ora, scorrendo le pagine del libro di Johan Huizinga, La civiltà olandese del Seicento (Einaudi, 1967), ci s’imbatte in un giudizio lapidario: «La rivolta contro il governo spagnolo fu una rivoluzione conservatrice, e non poteva essere altrimenti» (p. 22), perché voleva salvaguardare le antiche libertà medievali e dunque, ad esempio, l’idea che la sovranità fosse «riposta negli “stati” di ogni singola regione» (p. 26), dandogli però una forma, quella repubblicana, assolutamente rivoluzionaria per l’epoca. Non a caso, tutto ciò spinse Ugo Grozio a comporre nel 1610, appunto, un Trattato sull’antichità della Repubblica batava, in cui antico e nuovo coesistevano sin dal titolo.

È invece Rosario Villari a spiegare con grande chiarezza il senso di quel «non poteva essere altrimenti». Nel suo Politica barocca (Laterza, 2010), Villari nota come il Seicento fosse contrassegnato «dall’orrore del cambiamento e delle novità» (p. 17). Da qui l’avvertita necessità di iscrivere «le rivendicazioni e le esigenze di mutamento… entro formule di ritorno al passato e di difesa della tradizione» (p. 52). Ecco perché «nel linguaggio politico secentesco parole come “novità” o “innovazione” hanno un significato generalmente negativo. E la “mutazione di Stato” può essere invocata solo a condizione che venga formulata come un ritorno all’origine» (p. 52).

Il caso inglese

Caso esemplare è quello delle due rivoluzioni conservatrici inglesi (1640-1660 e 1688-1689), come emerge dalla lettura di due significativi documenti di quelle crisi. Nella Petition of Right, con la quale nel 1628 il Parlamento protestava contro l’assolutismo degli Stuart, si sottolinea più volte come la politica regia andasse contro «le leggi e le libere consuetudini (Free Customs) del Regno» e contro le antiche «libertà (Liberties)» sancite dalla Magna Charta libertatum del 1215. Anche nel Bill of Rights del 1689, testo fondamentale del costituzionalismo inglese, ricorre più volte il rimando alle antiche Liberties e Freedome, e la necessità di difendere gli «antichi diritti e libertà (auntient Rights and Liberties)» degli inglesi, e gli «autentici, antichi ed evidenti diritti e libertà (true auntient and indubitable Rights and Liberties)». Sui rapporti tra rivoluzione conservatrice e tradizione americana non ci dilunghiamo, rimandando a quanto scritto sui numeri 34 e 41 del Primato Nazionale.

Giovanni Damiano

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