La storia ci sorprende sempre. È questa la conclusione che si può trarre dalle tredici vicende storiche qui raccontate. I periodi di calma apparente tendono a oscurare la grande e costante realtà dell’imprevedibilità della storia. Poi, all’improvviso, come un colpo di cannone, l’imprevisto si impone, ribaltando tutte le certezze e i piani ben congegnati. Da questi sconvolgimenti della storia possiamo trarre buon materiale per filosofare.
Virtù e fortuna
Per spiegare i repentini mutamenti di cui la storia offre tanti esempi, Machiavelli invocava la Fortuna, di cui i romani avevano fatto una divinità. Era simboleggiata da una donna in equilibrio instabile su una ruota in movimento. Pur riconoscendo il ruolo della Fortuna nel gioco imprevedibile degli eventi e nel comportamento incoerente degli uomini, Machiavelli credeva anche nel ruolo della virtù [in italiano nel testo] (poi snaturata in «virtù morale»), qualità romana per eccellenza, fatta di volontà, audacia ed energia: «Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la Fortuna è donna, e è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi [gli impetuosi] che da quelli che freddamente procedano e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano». Il destino del Bonaparte, personificazione del Principe machiavelliano, è un perfetto emblema di questa teoria. Pochi anni prima del Brumaio, infatti, chi avrebbe mai potuto prevedere la sua vertiginosa ascesa e i rovesci che ne sarebbero seguiti?
La traduzione di questo articolo di Venner è stata pubblicata sul Primato Nazionale di maggio 2023
Deputato al Parlamento di Londra, lucido e inorridito osservatore degli inizi della Rivoluzione francese, Edmund Burke aveva capito, già nel 1791, quale sarebbe stato il destino della famiglia reale, e più in particolare di Maria Antonietta. Era indignato dal fatto che la nobiltà francese non si sollevò per difendere la regina oltraggiata: «In una nazione di uomini valorosi», scrisse allora, «in una nazione di uomini d’onore e di cavalieri, credevo che diecimila spade si sarebbero immediatamente levate dalle guaine per vendicare anche solo uno sguardo che la minacciasse d’insulto. Ma l’era della cavalleria è finita. Le è succeduta quella dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori, e la gloria d’Europa è estinta per sempre».
Infatti le spade, per la maggior parte, rimasero nel fodero nonostante gli oltraggi alla regina e l’esecuzione del re. Vi era da disperare del destino della virtù francese. Ma all’improvviso, senza che nessuno lo avesse previsto, insorsero la Vandea, Lione e Marsiglia, così come Tolone. Non era più un pugno di signori, ma un intero popolo di contadini che prendeva le armi «per Dio e per il re». Ben presto arrivò Termidoro e, pochi anni dopo, un giovane generale – ritenuto un giacobino irriducibile – seppellì la Rivoluzione sotto gli applausi degli ex regicidi. Che cosa era successo? La ruota della Fortuna aveva ripreso a girare.
La storia e l’innocenza del divenire
Gli esempi di ulteriori sconvolgimenti abbondano. Durante l’anno accademico 1975-1976, Raymond Aron, mente quantomai acuta e perspicace, tenne al Collège de France un corso sulla decadenza dell’Occidente. Lo concluse con queste parole: «L’indebolimento degli Stati Uniti dal 1945 al 1975 è dovuto a forze irresistibili». Ricordiamoci la parola «irresistibili». Nelle sue Memorie, pubblicate nel 1983, l’anno della sua morte, Aron tornò sull’argomento: «Quello che osservavo fin dal 1975 era la minaccia di disintegrazione dell’area imperiale americana». A chi ha riletto queste parole dopo il 2000, all’ombra dell’imperium mondiale statunitense, questa analisi ha fatto dubitare della lucidità del suo autore. Eppure, la sagacia di Raymond Aron non è mai stata contestata. Semplicemente, la storia aveva ripreso a galoppare in maniera inaspettata. Come sempre, del resto.
Il 22 gennaio 1917 Lenin, allora sconosciuto e ancora esiliato in Svizzera, parlò a Zurigo davanti al circolo degli studenti socialisti: «Noi, i vecchi», diceva parlando della sua generazione, «forse non vedremo mai le battaglie decisive della rivoluzione». Ricordiamoci la data: 22 gennaio 1917. Meno di otto settimane dopo, lo zarismo fu rovesciato, e non certo per mano di Lenin e dei suoi compagni bolscevichi. Le «battaglie decisive» in cui non credeva più, in realtà, stavano per cominciare. Ma esse avrebbero potuto evolversi in modo molto diverso. Il generale Ludendorff, ad esempio, il vero padrone della Germania dell’epoca, non fu costretto da nessuno, nell’aprile del 1917, a rispedire Lenin e i suoi compagni in Russia con un treno speciale «come i bacilli della peste». Ludendorff raggiunse il suo scopo. La Russia crollò.
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Tuttavia, in circostanze simili, un anno dopo, a cavallo tra il 1918 e il 1919, in una Germania travolta dalla sconfitta, dalla fame, dall’abdicazione del Kaiser e dalla guerra civile che infuriava in tutte le città, in questa terra di rivoluzione che fu Berlino secondo Marx, il Lenin tedesco, Karl Liebknecht, fallì nella sua impresa, chiudendo la carriera con una pallottola alla nuca sparata dalle «guardie bianche» berlinesi. Perché Lenin ha prevalso in Russia e fallito in Germania? Né Marx né i sociologi ci offrono una risposta. Che può venire solo dallo studio dei fatti.
Come i periodi precedenti, anche la storia del XX secolo rivela l’interazione di molteplici cause. Quelle dell’economia, delle tecniche o dei fattori etnici vi hanno la loro parte, ma integrati in un insieme molto più vasto e complesso di quanto potessero immaginare Marx o il razzista Vacher de Lapouge. Nella sua straordinaria scorciatoia, la storia della rivoluzione russa, come quella dei fascismi, evidenzia tre grandi serie di concause, all’interno delle quali tutte le variabili sono immaginabili. Un certo patrimonio storico è, cronologicamente parlando, il…
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