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Roma, 13 feb – La buona notizia è che Roberto Gualtieri non occuperà più lo scranno più alto di via XX Settembre. Uno dei peggiori ministri dell’Economia nella storia d’Italia lascia con il deserto dietro di sé. Una terra desolata fatta di ristori per le imprese che non arrivano, un tessuto produttivo letteralmente dilaniato dai lockdown, la disoccupazione destinata ad esplodere dopo la fine del blocco dei licenziamenti. Cosa potevamo aspettarci, d’altronde, da chi nel marzo scorso prevedeva una caduta del Pil “grave, ma gestibile” e per far fronte alla quale sarebbe stato sufficiente uno scostamento di bilancio da poco più di 6 miliardi?
Le “competenze” non bastano
Al posto dello storico marxista di provata fede europeista arriva Daniele Franco. E con lui una brutta notizia: le cose potrebbe persino andare peggio. Non per scarsa competenza, questa è una dote che all’ex Ragioniere generale dello Stato certo non manca. Unita ad una profonda conoscenza della finanza pubblica e delle dinamiche amministrative. E però era sicuramente competente, almeno nel suo settore, anche un’Elsa Fornero qualsiasi. Circostanza che non le ha impedito di portare la disoccupazione giovanile, nel giro di pochi mesi e con rara maestria, quasi al raddoppio. Insomma, se il criterio della “competenza” non è sufficiente ad esprimere un giudizio compiuto, può allora essere utile ripercorrere il cursus honorum del nuovo titolare della scrivania che fu di Quintino Sella.
Laurea in scienze politiche a Padova e master in Gran Bretagna a fine anni ’70, la carriera di Daniele Franco inizia nel servizio studi di Banca d’Italia. Vi rimane fino al 1994, quando diventa consigliere della direzione Affari economici della Commissione europea. Tre anni soltanto, per tornare a Palazzo Koch come direttore della direzione Finanza pubblica. Nel 2007 un’altra promozione: capo del servizio studi fino al 2011, poi fino al 2013 direttore della ricerca e delle relazioni internazionali. Lascia il posto per diventare Ragioniere generale dello Stato (su chiamata del governo Letta), carica che ricoprirà fino al 2019 quando farà ancora ritorno al nostro (fu) istituto di emissione, prima come vice direttore e poi come direttore generale.
Fu Daniele Franco a scrivere la brutta copia della lettera Bce?
La carriera di Daniele Franco, insomma, si snoda tutta in un andirivieni – quasi, si parva licet, un “eterno ritorno” – dalle parti di via Nazionale. Il momento senza dubbio più importante è nel 2011. E’ l’anno della crisi del debito sovrano italiano, delle manovre sporche della Bce che in estate manda l’ormai celebre lettera al governo Berlusconi. Nella missiva si chiedevano riforme, tagli alla spesa e numerose correzioni di bilancio. In caso contrario, era sottinteso, Francoforte avrebbe chiuso i rubinetti. Cosa che effettivamente avvenne, portando alla caduta dell’esecutivo e alla nascita di quello a guida Mario Monti.
Se la lettera porta la firma di Trichet e Draghi, Daniele Franco è colui che la tradusse. Questo secondo la vulgata. Stando ad altre fonti, in realtà, sarebbe proprio il nuovo ministro dell’Economia a redigere la brutta copia della stessa. Non trovando evidentemente alcunché da ridire, nonostante sapesse perfettamente – era chiaro a tutti, ma la narrazione non poteva essere smontata – che la crisi dell’Italia non era crisi da debito pubblico bensì da debito estero. Ne nacque la stagione dell’austerità, della doppia recessione, della disoccupazione stabilmente in doppia cifra.
Il capitolo spending review
La vicenda della lettera della Bce sarebbe di per sé già sufficiente per tracciare un quadro del nuovo titolare dell’Economia. Il quale, per non farsi mancare nulla, come già sottolineato per più di un quinquennio ha guidato anche la Ragioneria generale. E’ in tale veste che, oltre ad essere noto alle cronache per le “bollinature” delle manovre con relative e occhiute osservazioni (ebbe un ruolo anche nell’allucinante trattativa per la finanziaria del Conte I, quella del deficit al 2,4 poi limato al 2,04%), Daniele Franco ha affiancato i vari commissari alla revisione della spesa pubblica, dal Cottarelli al duo Castelli-Garavaglia, passando per Yoram Gutgeld. Parliamo della celeberrima “spending review“: avete presente i piccoli ospedali da chiudere e i 40 miliardi sottratti al Servizio sanitario nazionale negli ultimi anni? Ecco, quella roba lì.
Filippo Burla