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Euranic, una moneta che affonda /1: ecco perché è l'euro la causa della crisi

by La Redazione
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Roma, 31 mar – Se fosse una gara di 100 metri, l’Unione europea e l’euro potrebbero essere definiti come una falsa partenza. Come uno sprinter olimpionico, si è spinta subito in avanti senza aspettare il via; molti dei trattati europei presentano delle rigidità che ormai sono note a tutti. Un rigore fiscale estremo che sta aggravando ulteriormente la recessione dei paesi dell’eurozona, in particolare dell’Italia, la cui ripresa economica stenta ad arrivare, complici le politiche fiscali restrittive messe in atto dal governo (si parla sempre di riduzione del rapporto deficit/Pil per non incappare nelle cosiddette procedure per deficit eccessivi).
Il motivo è facilmente individuabile: insieme alla “stretta” che le politiche economiche di austerità portano con sé, infatti, i governi di mezza Europa stanno già operando riforme strutturali per il risanamento delle loro economie, a partire dalle liberalizzazioni del mercato del lavoro che hanno il chiaro scopo di alleggerire il peso del debito pubblico nazionale. Dunque non è un caso se da ogni parte d’Europa, si sollevino dubbi sui trattati europei, fra cui ad esempio il “Fiscal Compact”. A partire dal Presidente della Repubblica francese François Hollande (che aveva fatto della riforma del Fiscal Compact il suo cavallo di battaglia in campagna elettorale) per arrivare al Primo Ministro spagnolo Mariano Rajoy, convinto che si debba intraprendere una strada diversa che sia in grado di poter stimare i possibili effetti che potrebbero verificarsi.
L’euro è davvero la causa della crisi? Lo è per diverse motivazioni, in particolare per il fatto che una moneta eccessivamente forte fa alzare eccessivamente i prezzi. Come fare per diminuirli? Attraverso le cosiddette svalutazioni competitive, cosa che nell’Ue non si può più fare. Non potendo svalutare il capitale, si deve svalutare il lavoro, cosa che già avviene con le folli politiche neo-liberiste (secondo le quali uno Stato non deve intervenire nell’economia perché tanto tutto torna in equilibrio da solo… quindi se un ponte casca poi si ricostruisce da solo?) che altro non fanno che creare disoccupazione. Come contrastare la disoccupazione allora? Cosa fare per far ripartire l’economia? Certamente non quello che sta facendo l’Unione europea con le sue folli politiche economiche di austerità. Ma su cosa si basano le folli politiche economiche europee? Proviamo a capirlo con qualche esempio.
L’equazione che consideriamo è:
Y = C (Y-T) + I + (G -T) + EXP – IMP
Y é il Pil, C sta per consumi, I per investimenti, G per spesa pubblica, T per imposte, EXP per esportazioni e IMP per importazioni).
Secondo l’Ue dovremmo aumentare il Pil, ma:
1) gli investimenti sono bloccati dal Patto di Stabilità interno e dal Fiscal Compact che prevede il pareggio di bilancio in termini strutturali (quest’ultimo rinviato nuovamente al 2019). Essendo bloccati il Pil non aumenta;
2) Aumento della pressione fiscale che fa diminuire i consumi (la gente spende di meno e tramite il moltiplicatore, diminuisce la domanda e la produzione; Se il consumo diminuisce viene da sè che Y, ossia il Pil, diminuisce;
3) Taglio della Spesa pubblica: un taglio della spesa pubblica, in tempi di crisi, non fa altro che aggravare ancora di più la crisi, rendendola ancora di più recessiva e determinando dunque una caduta del Pil. Se invece lo Stato decidesse di aumentare la spesa pubblica, ad esempio per assumere lavoratori, dovrebbe ovviamente dargli uno stipendio. Questo stipendio verrebbe in parte speso e in parte risparmiato (nessuno vuole rimanere senza un euro in tasca ovviamente). Questa parte consumata va ad aumentare la domanda e successivamente la produzione, attraverso un processo moltiplicativo che prende il nome di moltiplicatore della spesa pubblica, con annessi effetti benefici sul mercato del lavoro (per produrre di più serviranno nuovi lavoratori ad esempio).
Quindi la formula del Pil per la dottrina europea è soltanto Y= EXP – IMP, ma per aumentare le esportazioni, non potendo più svalutare la moneta, si dovrà svalutare il lavoro, rendendolo per molte volte disumano e sempre più privo di diritti sociali (per chi ce l’ha ancora). Tutto questo come avviene? Con una disoccupazione alta, dato che in presenza di un alto tasso di disoccupazione, i lavoratori “avranno meno forza contrattuale” tanto che gli frega, se perdete il lavoro prendono qualcun altro al vostro posto, contribuendo in maniera folle a questa deflazione sia di natura salariale che si natura sociale.
A proposito di deflazione, ma l’euro non doveva farci lavorare un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più, come sostenuto da Romano Prodi? A quanto pare è avvenuto tutto il contrario, poiché molta gente ha perso sia il lavoro e sia lo stipendio e la deflazione non ha fatto altro che accentuare la disoccupazione. Ma cos’è la deflazione? E perchè è così poco auspicabile?
Tutti abbiamo sentito parlare almeno una volta dell’inflazione, ossia dell’aumento del livello dei prezzi; la deflazione è il suo esatto contrario. Ma come mai si verifica e perchè c’è chi dice che non è positiva? La deflazione, da non confondere con la disinflazione, deriva dal fatto che i consumi siano fermi al palo. Le imprese, che registreranno un aumento della merce invenduta e ridurranno sia il livello di produzione sia i prezzi, per non perdere quote di mercato (ossia per non perdere clienti gli fa un prezzo più basso). Questa riduzione dei prezzi fa scatenare un circolo vizioso che si autoalimenta e che fa male a tutti: questo porta gli individui a posticipare i propri acquisti (se lo compro domani, pago di meno). Anche la riduzione della produzione fa male: questo porta le imprese a licenziare i propri lavoratori (dal momento che la domanda si riduce, non è utile per le imprese mantenere lo stesso numero di lavoratori).
Una recente indagine di Deutsche Bank evidenzia come dal 2012 le principali economie del mondo stiano attraversando la cosiddetta “wage deflation”. Ne consegue che i Paesi sviluppati stanno affrontando una “deflazione salariale”. Ciò è dovuto per i Paesi dell’eurozona
1) in parte agli effetti fisiologici del processo di globalizzazione in corso (i Paesi più ricchi finiscono per importare deflazione dai Paesi che vendono prodotti a costi più bassi perché hanno costi di produzione minori);
2) in parte a un lento processo di aggiustamento degli squilibri commerciali tra Nord e Sud Europa: i Paesi più deboli, per tornare competitivi, non potendo svalutare il cambio che è fisso sono costretti a svalutare i salari.
Come fare per uscirne? La Bce per il momento ha abbassato i tassi di interesse a zero, per stimolare gli investimenti e attraverso il moltiplicatore, domanda e produzione, ma è necessario che le banche commerciali tornino a dare credito al settore privato, dunque famiglie e imprese, per finanziare investimenti che non troverebbero copertura finanziaria, come ad esempio l’acquisto di una casa per una famiglia o di un capannone per un’impresa.
Quali sono le alternative all’austerità?
Questo concetto parte da pensatori liberali come Einaudi, Von Hayek ecc. secondo cui lo Stato funzionerebbe come una grande azienda. Assolutamente No. In primis perché l’obiettivo dello Stato non è quello del profitto, bensì quello del benessere sociale: lo Stato raccoglie la valuta che esso stesso ha creato (essendo il creatore della valuta) e che esso stesso mette in circolazione nel sistema economico. Come? Tramite la spesa in beni e servizi, che noi conosciamo con il più comune nome della spesa pubblica, immette liquidità nel sistema economico che poi serve per remunerare i suoi cittadini; supponiamo ad esempio di dover costruire un ponte. Lo Stato dovrà assumere dei lavoratori (chi farà il progetto per la costruzione del ponte, i muratori ecc.) ai quali dovrà giustamente pagare uno stipendio. Questo stipendio verrà in parte consumato e in parte risparmiato (nessuno vorrà rimanere senza soldi in tasca) facendo aumentare la domanda aggregata, cioè la domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico. Viene da sé il caso inverso: una riduzione della spesa pubblica o un incremento delle tasse fa diminuire la domanda aggregata, il che si traduce in una maggiore disoccupazione e una diminuzione della forza contrattuale dei lavoratori e dei loro diritti sociali (“se state male affari vostri, tanto prendiamo qualcun altro da sfruttare al posto vostro”, questa è la risposta che ci viene data spesso e volentieri di questi tempi) 10
L’assunto neo-liberista che lo Stato debba avere un bilancio in pareggio trova poco riscontro. Riprendiamo l’equazione:
Y = (G – T) + C (Y – T) + I + EXP – IMP
Dove: (G – T) è il deficit di bilancio pubblico se G è maggior di T; notiamo come in questo caso l’impatto di G – T sia positivo sul PIL. In Italia da circa 20 anni avviene il contrario, proprio a causa delle politiche neo – liberiste: le tasse superano la spesa pubblica, con evidente impatto negativo sul PIL questo perché a un deficit pubblico corrisponde una maggiore ricchezza del settore privato, ossia di famiglie e imprese. Motivo per cui il pareggio di bilancio sia una panzana bella e buona: l’obiettivo che lo Stato deve perseguire deve essere quello di tendere alla piena occupazione. E perché? Uno Stato che possiede l’obiettivo della piena occupazione e che spende a deficit per creare posti di lavoro è uno Stato che dunque combatte in maniera decisa la disoccupazione e che rende i suoi cittadini più forti contrattualmente: potranno far valere in maniera più netta i propri diritti e rivendicare uno stipendio più dignitoso.
“Tutta questa austerità ha peggiorato le cose. Era prevedibile, perché l’invito a risparmiare si è fondato su un fraintendimento del ruolo del debito nell’economia. L’equivoco è evidente ogni volta che qualcuno si scaglia contro il deficit con slogan come “Smettiamo di rubare ai nostri figli“. Apparentemente suona bene: le famiglie che s’indebitano s’impoveriscono, perciò vale lo stesso per il debito pubblico, giusto? Niente affatto. Una famiglia indebitata deve dei soldi a qualcun altro, mentre l’economia deve dei soldi a se stessa. È vero che i paesi possono indebitarsi con altri paesi, ma dal 2008 l’indebitamento degli Stati Uniti con l’estero è diminuito, mentre l’Europa è in credito netto con il resto del mondo. Siccome sono soldi che dobbiamo a noi stessi, il debito non rende direttamente l’economia più povera, e rimborsarlo non ci rende più ricchi”.
Chi ha pronunciato secondo voi queste parole? Le Pen, Salvini, Putin o qualche populista bigotto? No, le ha pronunciate Paul R. Krugman, professore presso l’Università di Princeton, noto Premio Nobel per l’Economia… Non un liberista in preda a manie di onnipotenza.
Stefano Mastrillo

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