Roma, 23 nov – Con la rassegnazione delle dimissioni e la conseguente fuga in Messico si è probabilmente conclusa la parabola politica di Evo Morales, ormai ex presidente della Bolivia. Se l’addio al paese è stato repentino e funestato da incidenti e rivolte di piazza, è giusto ricordare le sue intuizioni in economia che hanno letteralmente trasformato la nazione sudamericana negli ultimi 14 anni ed i cui benefici si sentiranno ancora per molti anni a venire.
L’ascesa al potere di Morales
Juan Evo Morales Ayma nasce da una famiglia di agricoltori, la sua origine umile gli preclude studi prestigiosi e inizia presto a lavorare come “campesino” (letteralmente lavoratore dei campi) nelle piantagioni legali di Coca nella provincia di Chapare. Qui inizia a farsi notare come sindacalista, denunciando le pessime condizioni di lavoro e i bassi salari riservati ai lavoratori agricoli, per la maggior parte indios come lui. Viene eletto nel 1997 al parlamento come portavoce della parte più debole del paese. In quegli anni la Bolivia è infatti una nazione profondamente spaccata. Le aree industriali in cui è cresciuta una borghesia che ha prodotto la classe politica dominante si contrappongono al vasto territorio andino, popolato dalla consistente ma estremamente povera maggioranza indigena.
La sua popolarità cresce a dismisura durante la “guerra dell’acqua” del 2000. Nella quarta città boliviana, Cochabamba, un irresponsabile piano di privatizzazione delle acque, cedute alla multinazionale Bechtel, comporta un spropositato aumento delle tariffe causando violente proteste e numerosi incidenti. Morales è uno dei leader della rivolta e dopo una serie di imponenti manifestazioni il governo in carica viene costretto a revocare la privatizzazione.
Nel dicembre 2005 Evo Morales viene eletto Presidente della Bolivia, il primo di origine indigena della storia del paese sudamericano.
La trasformazione economica
Appare subito chiaro che i toni anticapitalisti usati da Morales durante la campagna elettorale per le presidenziali non sono un bluff. Fiero oppositore della “logica del mercato” il neopresidente imposta un programma che si concentra su nazionalizzazioni mirate, tassazione delle grandi aziende, redistribuzione della ricchezza e un’opera di progressivo sganciamento della valuta locale dal dollaro americano, dipendenza che aveva contribuito a rendere inefficaci le politiche monetarie dei precedenti governi.
Il suo è un socialismo atipico, ben diverso da quello militante di Chavez prima e Maduro poi del vicino Venezuela. Prendiamo ad esempio le risorse naturali, come ad esempio il gas i cui proventi contribuiscono per il 45% al totale delle esportazioni, o il litio di cui la Bolivia detiene quasi il 50% delle riserve mondiali. Ebbene mentre in Venezuela si nazionalizzavano le imprese, in Bolivia si è preferito nazionalizzare le risorse. Ovvero lo Stato non controlla direttamente le società che si occupano di estrazione e lavorazione, che godono quindi di una certa autonomia nel processo produttivo, bensì impone di dividerne i profitti in maniera molto più favorevole per lo Stato. Una differenza sottile ma sostanziale che aumenta l’efficienza e allo stesso modo non spaventa troppo chi vuole investire in Bolivia. Per continuare nel paragone con il Venezuela basti pensare che dal 2002 al 2012 quasi 1.200 aziende sono state espropriate dal duo Chavez-Maduro, mentre dal 2005 al 2015 solo 20 sono state le società nazionalizzate da Morales.
Il boom dei profitti derivanti dalle risorse naturali ha portato ad una rivalutazione del boliviano, la valuta locale, e ad un pareggio di bilancio che il Paese non vedeva da 30 anni. Questa ritrovata forza economica ha permesso elevati livelli di spesa pubblica, con un programma di investimenti volto a migliorare il tessuto infrastrutturale, con la costruzione di strade e portando acqua ed elettricità nelle vaste aree che ne erano sprovviste. Si sono introdotte misure di welfare come le pensioni di anzianità ed una serie di controlli medici obbligatori e gratuiti. Il prezzo della benzina e di molti generi alimentari è stato messo sotto controllo attraverso speciali enti governativi in modo da calmierare l’inflazione a seguito della crescita economica.
I risultati incoraggianti e gli scontri con l’Fmi
Più che di una crescita possiamo parlare di un vero e proprio miracolo economico: la Bolivia è cresciuta ad una media del 4,9% l’anno negli ultimi 15 anni. Una cifra davvero incredibile per una nazione che fino al 2005 era completamente dipendente dagli ingenti prestiti internazionali. Ad oggi è la nazione con la più alta percentuale di crescita del Pil pro capite di tutto il Sud America.
Spesso però ad una crescita così importante si associa una distribuzione del reddito che tende ad inasprire le differenze tra classi sociali, ma grazie alle politiche di Morales i benefici maggiori sono stati a favore della popolazione meno abbiente. Il tasso di povertà è passato dal 60% del 2006 al 33% del 2018, la percentuale di nullatenenti è passata dal 38% al 15% nello stesso lasso di tempo. La disoccupazione era pari all’8% nel 2008 e oggi è di poco superiore alla metà.
Come abbiamo accennato il principale strumento con cui Morales ha ottenuto questi successi è stato il controllo sulle risorse naturali, l’obiettivo di controllare le multinazionali degli idrocarburi al fine di redistribuire ricchezza al suo popolo è stato fortemente ostracizzato dal Fondo monetario internazionale, contrario da sempre a qualsiasi forma di nazionalizzazione. In risposta ai continui screzi con l’Fmi Morales nel 2007 ha annunciato il ritiro della Bolivia dall’Icsid (International Centre for the Settlement of Investment Disputes) il sistema di arbitraggio della Banca Mondiale che consente alle multinazionali di fare causa ai singoli stati se ritengono di essere stati trattati ingiustamente. Evo Morales riteneva che questi tribunali erano troppo favorevoli alla grandi corporation, nella sua visione li definiva uno strumento “globalista” avente come unico scopo quello di togliere ricchezza ai paesi poveri per trasferirla a quelli già ricchi.
E’ lo stesso Morales a definire il suo modello economico in una intervista al Washington Post: “Lo Stato non è in grado di risolvere tutti i problemi, deve essere a capo del programma di investimenti ma deve essere accompagnato in questi dal settore privato, questo è il modello di socialismo a cui puntiamo”. Il suo vice Alvaro Garcia Linera, da molti considerato la mente economica dietro al Presidente, rafforza questa idea affermando che “la politica economica boliviana deve essere una combinazione flessibile di libero mercato ed economia pianificata”.
E’ innegabile che questo modello abbia funzionato, dopo 14 anni di presidenza Morales i boliviani sono oggettivamente più ricchi, più educati, più sani ed hanno visto aumentare la loro vita media e l’uguaglianza sociale. La Bolivia sta recuperando l’enorme divario che la separava dalle altre economie del continente, mentre le nazioni che hanno abbracciato il liberismo come l’Argentina, l’Ecuador e più recentemente il Cile, stanno affrontando periodi molto difficili economicamente e politicamente.
Le ragioni della caduta e il futuro della Bolivia
Difficile spiegare le ragioni della caduta di Morales partendo da un punto di vista economico, più facile forse da quello politico. La sua popolarità è iniziata a calare nel 2016 quando indice e perde un referendum per cambiare la costituzione che lui stesso aveva fatto approvare nel 2007, che impediva al presidente boliviano di presentarsi alle elezioni per un quarto mandato. Un tribunale ribalta la decisione popolare stabilendo che il limite di tre mandati presidenziali previsto dalla costituzione viola i diritti umani, creando una spaccatura anche tra i suoi sostenitori che lo abbandoneranno in parte alle recenti elezioni dove Evo vince con margine risicatissimo e con l’opposizione che denuncia frodi elettorali.
Non è difficile pensare che il fatto di essere inviso alle potenze occidentali e alla grande finanza mondiale abbia contribuito in egual misura alla sua caduta in disgrazia. Alcuni sociologi si spingono oltre, arrivando a pensare che Morales sia vittima del proprio successo: con la sua politica di inclusione sociale ha infatti creato grandi aspettative nella popolazione che è diventata più ambiziosa, finendo con il perseguire il sogno di una ricchezza economica piuttosto che l’identità politica.
Se da un punto di vista politico la Bolivia è sprofondata nel caos con lo spettro del ritorno al potere di una oligarchia che considera gli indios cittadini di seconda classe, o peggio ancora dei militari, anche dal punto di vista economico vi sono delle incertezze. I limiti della Evonomics devono ancora essere testati. Nonostante il tentativo di modernizzare il sistema industriale investendo in grandi complessi petrolchimici, idroelettrici e per la produzione di batterie al litio, la Bolivia rimane dipendente dalla nazionalizzazione delle risorse naturali. Grazie a queste entrate si è potuto operare entro limiti relativamente contenuti di deficit di bilancio (comunque in aumento negli ultimi anni), ma l’abbassamento dei prezzi del gas naturale potrebbe portare ad un aumento del debito verso l’estero e alcuni iniziano a pensare che sotto un certo livello di prezzi l’intero sistema possa esplodere. E una svolta politica liberista potrebbe rimettere in discussione tutto l’impianto sociale costruito da Morales in 14 anni.
Claudio Freschi