Roma, 27 mar – In questa fase di forzata reclusione, e di tristi e solitarie riflessioni, a volte mi capita di pensare, sorridendo, al tanto bistrattato petrolio; o meglio ad un bel pieno di benzina e al suo buonissimo e famigliare profumo. E alla libertà di viaggiare, di andare in giro di qua e di la’, magari con una rumorosissima moto. Certo lo potrei, e forse dovrei, immaginare anche con una silenziosa macchina elettrica; ma in questo momento ho proprio bisogno di sentire l’odore della benzina e il rombo del motore a scoppio, quasi a squarciare la maledetta cappa tossica. Ma, non potendo riempire il serbatoio della mia vecchia moto per andarmene in giro dove mi pare, mi limito a qualche riflessione proprio sul petrolio.
Il coronavirus stravolge il mondo dell’eneregia
Il coronavirus nella sua nefasta marcia sta uccidendo molte persone, colpendo sistemi sanitari, indebolendo certezze e mutando prospettive, distruggendo settori economici; e sta anche, inevitabilmente, stravolgendo il mondo dell’energia. E anche se la produzione energetica mondiale, strategica per definizione, va avanti come prima, molte anche granitiche certezze, solo di poco tempo fa, diventano sicuramente più fragili. Anzi il sentimento dominante è proprio l’incertezza. Ad esempio, il rallentamento dell’industria, e non solo cinese, dei pannelli fotovoltaici e la difficoltà di ottenere i permessi pubblici, per la chiusura degli uffici, possono ovviamente incidere sull’installazione del nuovo solare. E dunque frenare la grande avanzata, in nome dell’innovazione e dell’ambientalismo, delle energie rinnovabili. Di certo c’è però un grande fiume di petrolio, disponibile a prezzi sempre più bassi e con immutata e imbattibile densità energetica e densità di potenza.
Ad oggi il caro vecchio petrolio, nonostante il marchio di grande inquinatore, la grande avanzata delle fonti rinnovabili e la transizione energetica, è ancora la principale fonte d’energia del mondo contemporaneo, con una produzione di oltre 4 miliardi di tonnellate annue pari circa al 30% del consumo energetico globale. Una produzione, e un potere, estremamente concentrati: dai primi 10 paesi produttori di petrolio proviene circa il 70% della produzione mondiale, con il dominio di Usa, Arabia Saudita e Russia; e anche la domanda è concentrata, con i primi 10 paesi consumatori che totalizzano quasi il 60% del consumo mondiale, con un ruolo sempre più importante dei paesi asiatici. Del petrolio si può dire che, nonostante l’ascesa delle rinnovabili e del gas, è e continuerà ad essere nel medio termine la principale fonte energetica mondiale, con un posizionamento dominante nel settore dei trasporti, e con una direzione strategica sostanzialmente decisa da tre grandi paesi produttori – Usa, Arabia Saudita, Russia – e dai grandi clienti asiatici.
La guerra dei prezzi
I Paesi produttori come noto hanno sempre ingaggiato una durissima guerra dei prezzi, e spesso non solo dei prezzi, per il predominio strategico e per difendere la loro quota di mercato. E da quando è scoppiata l’emergenza coronavirus il prezzo del petrolio è crollato, passando in meno di un mese da 55 fino a 20 dollari al barile: e così proprio mentre la pandemia riduce la domanda, Arabia Saudita e Russia scatenano una guerra dei prezzi, inondando il mercato di petrolio. All’inizio di marzo, i paesi Opec + non hanno raggiunto un accordo per ridurre la produzione di petrolio; Riad ha insistito per un’ulteriore taglio della produzione, incontrando l’opposizione di Mosca, che ha proposto di mantenere le condizioni attuali. Successivamente, i sauditi hanno annunciato che avrebbero aumentato la produzione e abbassato i prezzi, quindi offerto grandi volumi di sconti ai clienti europei; decisione che ha portato al crollo delle quotazioni petrolifere nei mercati mondiali.
Una guerra che ora viene combattuta anche per mare: i noli delle petroliere più grandi sono decuplicati (con una punta di 299 mila dollari al giorno tra Golfo Persico e Asia, segnala Lloyd’s List) a causa di un boom di prenotazioni da parte di Riad, che ha fatto salire a livelli record il cosiddetto contango, ossia lo sconto tra le quotazioni a pronti del greggio (che vediamo crollare ogni giorno di più) e quelle per le consegne differite nel tempo.
Riad ha dunque lanciato una sfida globale, specie ai concorrenti russi: le forniture extra previste per aprile – ben 2,6 milioni di barili in più rispetto a questo mese – sono state offerte soprattutto a clienti europei e asiatici, secondo fonti Reuters, nelle aree che di solito importano molto dalla Russia. In Europa i sauditi hanno triplicato le vendite mentre i prezzi delle principali qualità di greggio russo – l’Ural, acquistato in Europa, e l’Espo Blend, esportato in Asia – sono crollati proprio per la concorrenza saudita. E mentre divampa la guerra dei prezzi tra Russia e Arabia Saudita, gli Stati Uniti per difendere lo shale oil, mettono in moto la diplomazia con Riad per provare a creare un asse alternativo all’Opec e all’alleanza energetica tra Mosca e Riad, forse irrimediabilmente già compromessa dal fallimento dell’ultimo vertice Opec Plus.
Gli Usa riempiono le riserve strategiche
Nel frattempo gli Usa per arginare il crollo delle quotazioni del petrolio, dichiarano che riempiranno «fino all’orlo» le riserve strategiche, acquistando barili dagli operatori americani, fortemente indebitati, di shale oil, tecnologia estrattiva che richiede alti prezzi del barile per essere conveniente. I pozzi dello shale oil sono di breve durata, e quindi le decisioni vengono prese su orizzonti più brevi e più sensibili alle fluttuazioni del prezzo del barile, rispetto al petrolio convenzionale. Ma soprattutto lo shale oil è un’industria strategica per gli Usa, industria che ha permesso di essere quasi indipendente dal greggio estero, e di incidere sulle dinamiche del sistema energetico mondiale
La Casa Bianca ha deciso dunque di intervenire decretando l’acquisto di greggio per la Strategic Petroleum Reserve (Spr), un intervento con cui spera di sostenere le quotazioni del barile e di sorreggere le indebitate società dello shale oil, che rischiano il fallimento. Il costo dell’intervento, con denaro pubblico, sarà di circa 2,6 miliardi di dollari ai valori attuali. Lo stesso ordine era stato dato anche da George W. Bush all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001. Quindi adesso che il gioco si fa duro anzi durissimo il petrolio sembra riprendere lo scettro di Re dell’energia (in realtà mai perso) in barba a cambiamenti climatici e co2, con tre sistemi paese – USA, Russia e Arabia Saudita – che ne definiscono regole e dinamiche, con un’Europa, e Italia al seguito, dipendente dalle altrui energie ed esclusa dalle decisioni, limitata al ruolo di acquirente, e evidentemente molto impegnata sul Green New Deal. Già, che ne sarà del Green New Deal?
Gian Piero Joime