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Petrolio e sanzioni: Iran, 40 anni di un’economia in trincea

by Claudio Freschi
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Roma, 22 apr – Era il 1 febbraio 1979 quando Ruollah Khomeini sbarcò all’aeroporto di Teheran dopo molti anni di esilio all’estero, diventando la guida spirituale della rivoluzione contro lo Shah Reza Pahlavi e dando un contributo fondamentale alla trasformazione dell’Iran in una Repubblica Islamica.

Il regime dello Shah aveva inasprito le ineguaglianze sociali, favorito la concentrazione di ricchezza nelle mani di una fidata oligarchia, aumentato lo squilibrio tra aree urbane e le aree rurali che concentravano la maggior parte della popolazione e che vivevano privi di collegamenti e dei servizi fondamentali.

L’aristocrazia teologica che di fatto prese il potere credeva fortemente in un miracolo economico volto a ristabilire un minimo di uguaglianza sociale.  Gli obiettivi da perseguire vennero sanciti nell’articolo 12 della Costituzione della Repubblica Islamica “Una economia equa basata sui criteri della legge islamica, che crei benessere ed elimini la povertà e la mancanza di cibo, case, lavoro e sicurezza”.

Le prime sanzioni e la guerra con l’Iraq

Sicuramente la deposizione di Pahlavi, grande amico degli Usa e alleato strategico nello scacchiere del Medio Oriente, aveva fortemente incrinato i rapporti tra gli americani e la neonata repubblica islamica, ma il grande strappo avvenne pochi mesi dopo, precisamente nel novembre 1979.

Dopo che gli Stati Uniti concessero al deposto Shah il permesso di vivere e curarsi nel loro Paese invece di permettere l’estradizione in Iran per essere processato, un gruppo di studenti radicalizzati assaltarono l’ambasciata americana a Teheran occupandola e prendendo tutto il personale in ostaggio. Una occupazione che durò un anno e mezzo e che sancì l’inizio della politica delle sanzioni economiche.

Con l’ordine esecutivo 12170 firmato dal presidente Jimmy Carter alla fine del 1979, si congelavano 12 miliardi di dollari di beni iraniani, depositi bancari, oro e proprietà immobiliari. Da allora le relazioni tra i due paesi furono irrimediabilmente compromesse.

Dopo nemmeno un anno, il 22 settembre 1980, vi fu l’invasione militare da parte dell’Iraq che approfittando di una lunga storia di dispute sui confini territoriali, colse l’occasione per cercare di rimpiazzare l’Iran come la forza dominante nel Golfo Persico, dando vita ad una guerra di trincea, lunga e sanguinosa durata 8 anni e che causò almeno 500mila vittime tra gli iraniani.

L’economia di resistenza

Si capisce che in un contesto di questo genere le politiche economiche iraniane non poterono che assumere un carattere di continua emergenza. Venne coniato il termine economia di resistenza, caratterizzato da una forte impostazione antiliberista, che prevedeva l’intervento massiccio dello Stato in larghi settori dell’economia attraverso la nazionalizzazione delle maggiori banche e delle aziende più strategiche come quelle petrolifere. L’esplosione dei prezzi del petrolio negli anni precedenti alla rivoluzione aveva fatto credere alle classi dirigenti iraniane che una crescita economica rapida e sostenibile fosse relativamente semplice da raggiungere, così come l’obiettivo prefissato di una maggiore eguaglianza sociale.

In realtà la caduta dei prezzi e della produzione di petrolio rese le cose particolarmente difficili, basti pensare che nel quinquennio 1974-1979 le entrate derivanti dal greggio ammontavano alla cifra astronomica di mille miliardi di dollari al valore odierno, mentre nel 2018 erano pari a 70 miliardi di dollari.

Nonostante questo però l’approccio della Rivoluzione Islamica a favore della popolazione rurale più povera non mancò di dare i suoi frutti. Con la costruzione massiccia di infrastrutture che portarono le aree disagiate a fruire dei servizi fondamentali come l’acqua corrente e l’elettricità, e la creazione di scuole ed ospedali si arrivò ad alzare notevolmente la qualità della vita delle classi più deboli, riducendo negli anni il tasso di povertà (superiore al 25 % negli anni settanta) portandolo al 9% del 2018.

Il problema della disoccupazione giovanile

Se la Repubblica Islamica dell’Iran si è dimostrata piuttosto efficiente nella riduzione della povertà altrettanto non si può dire a riguardo della creazione di lavoro, la disoccupazione tra i giovani iraniani sotto i 30 anni si aggira intorno al 40% e considerando che il livello di istruzione è mediamente molto alto, il problema assume dimensioni preoccupanti.

Le cause relative a queste difficoltà sono essenzialmente tre:

  • Il boom demografico; l’Ayatollah Khomeini pose fin dal principio l’accento sull’importanza di aumentare il numero di nascite, attuando sia una operazione di convincimento “spirituale” sia una politica di incentivi economici. Il risultato è stato che la popolazione in Iran è passata dai 39 milioni del 1980 agli 82 milioni registrati nel 2018. Questo ha causato un clamoroso eccesso di forza lavoro, si stima che ogni anno 150.000 giovani provino ad entrare senza successo nel mondo produttivo.
  • Le conseguenze della nazionalizzazione dei settori strategici; se da un lato l’intervento dello Stato ha permesso di superare momenti oggettivamente molto difficili, la creazione di una miriade di società parastatali, spesso sotto il controllo diretto delle autorità religiose, ha limitato moltissimo il ruolo dell’imprenditoria privata.
  • Il petrolio; sembra paradossale, ma la grande dipendenza dell’Iran dalle entrate derivanti dal greggio seppur altalenanti, hanno favorito una politica del consumo più che della produzione. L’esportazione di petrolio ha permesso di mantenere un tasso di cambio basso, che ha favorito le importazioni, scoraggiando così la produzione domestica e quindi la creazione di nuove imprese e nuovi posti di lavoro. Allo stesso tempo come paese produttore i costi dell’energia sono tra i più bassi al mondo e questo ha banalmente incoraggiato le aziende a rimpiazzare i lavoratori con macchinari che si rivelavano più economici.

La grande sfida del futuro

Le cose sembravano migliorare a livello internazionale, con la politica più accomodante e diplomatica del Presidente Rohani che aveva portato a gennaio 2016 alla revoca di gran parte delle sanzioni internazionali grazie alla firma del trattato sull’energia nucleare iraniana. Ma nel maggio 2018 gli Stati Uniti hanno annunciato unilateralmente l’uscita dall’accordo. Con lo scopo di indurre l’Iran a ritirare il proprio appoggio al governo di Bashar al-Assad in Siria e ad Hezbollah in Libano, l’amministrazione Trump ha ripristinato tutte le precedenti sanzioni economiche.

L’Iran è entrato ufficialmente in recessione nel 2018 e per il 2019 si stima che il prodotto interno lordo decrescerà ulteriormente del 3,6%. La situazione è preoccupante, tanto da far dire al leader supremo l’Ayatollah Khamenei che “l’economia è il problema più serio ed urgente del paese”, affermando che la chiave per superare la difficile situazione sarà l’incremento della produzione nazionale.

Per fare questo al Presidente Rohani ora spetta un compito non facile sintetizzabile nei seguenti punti:

  • Mantenere l’inflazione a livelli accettabili, possibilmente entro il 10%, in una economia in cui le esportazioni sono soggette a moltissime restrizioni, la perdita di valore della valuta non viene compensata dai benefici di maggiori entrate derivanti dall’export essendo invece causa di una violenta fluttuazione delle entrate derivanti dalla vendita del petrolio.
  • Una riforma massiccia del sistema bancario; un gran numero di banche iraniane non aderendo ai regolamenti internazionali sono completamente fuori controllo. Molte di queste sono tecnicamente fallite ma continuano a prestare soldi in modi non del tutto trasparenti. Lo Stato ha dovuto immettere miliardi di dollari di fondi pubblici per rimborsare i risparmiatori che avevano depositato i loro soldi in banche che avevano azzerato arbitrariamente i conti.
  • Aumentare gli investimenti nei settori non petroliferi, soprattutto nel campo immobiliare che spesso in passato è stato il motore del recupero economico della nazione e nelle infrastrutture, necessarie anche per affrontare il grave problema della siccità, attraverso la costruzione di nuove dighe ed opere che vadano ad ovviare la mancanza di acqua in molte zone del paese.

Non si tratta di compiti facili ma l’economia iraniana è più forte e compatta di quanto pensino a Washington. Le nuove sanzioni unilaterali americane continueranno a causare enormi problemi, ma questo non significa che l’Iran sia sull’orlo di una nuova rivoluzione che porti ad un cambio di regime.

Claudio Freschi

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