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C'era una volta l'Italia: come siamo (quasi) riusciti a suicidarci

by Salvatore Recupero
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bandiera-italiana-800x533[1]Roma, 27 lug – Per l’ufficio studi delle principali banche italiane: “L’Italia è fuori dalla recessione: la crescita del Pil quest’anno è stimata nello 0.7% e nel biennio 2016-17 dell’1.6% annuo”.
Che bella notizia! Ci voleva proprio una bella boccata d’aria in quest’estate afosa. Ma, poi, arriva sempre qualcuno che rovina la festa. Sul sito Quifinanza.it qualcuno prospettava tempi cupi per l’Italia. Il titolo dell’articolo non lasciava spazio a dubbi: Fra 10 anni dell’Italia non resterà nulla”. In questo intervento si raccoglievano le riflessioni di Roberto Orsi, italiano che vive e lavora a Londra presso la London School of Economics.
Le sue parole meritano di essere riportate per intero: “Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà”.
Affermazioni di questo tipo non vengono sentite per la prima volta. Possono, però, sempre essere un valido spunto di riflessione. Vediamo perché. Intanto fotografano la realtà. E questo non è poco. Ma la riflessione di Orsi ha il merito di non limitarsi ai soli dati economici. Lo spettro della sua analisi spazia dai dati economici a quelli demografici e soprattutto politici. Una classe dirigente, che lungi da essere guida, obbedisce ai dettami che vengono dall’estero.
Negli ultimi venti anni, anche da noi, si è imposto il pensiero unico internazionalista, liberista e antinazionale. Prima la forza del nostro sistema economico faceva perno su un modello di sviluppo diverso rispetto ad altre nazioni. Nonostante il clientelismo parassitario eravamo tra le prime economie mondiali. Chi voleva attaccarci sapeva bene dove iniziare. Tre erano i punti di forza della nostra economia: il sistema bancario ancora legato alla riforma voluta da Mussolini nel 1936, i distretti industriali e il cosiddetto capitalismo di relazione, e il controllo pubblico dei principali settori strategici.
A partire dal 1992, con la scusa della questione morale, la classe politica italiana si è resa complice dei nostri nemici. Vediamo come. In primis, è stato colpito il settore del credito: privatizzazione delle banche di interesse strategico (Bin) che detenevano la gran parte delle quote della Banca d’Italia. Annullando de facto il potere di vigilanza dell’Istituto di Via Nazionale. Il controllato, così, tiene in pugno il controllore. Poi, Giuliano Amato ha definitivamente eliminato la distinzione tra le banche commerciali e quelle d’affari. Siamo diventati tutti trader! Lo smantellamento dell’Iri ha fatto il resto. Per molti anni l’IRI fu la più grande azienda industriale al di fuori degli Stati Uniti. Altro che carrozzone di Stato. Ancora nel 1993 l’IRI si trovava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67,5 miliardi di dollari di vendite. Nonostante questi numeri la classe politica più illuminata ha regalato la più grande industria italiana alla finanza apolide.
Le liberalizzazioni e l’elevato carico fiscale hanno messo in difficoltà tutto il ceto produttivo italiano. Tornando ad Orsi, il dato più significativo della crisi italiana è lo smantellamento del sistema manifatturiero, vera peculiarità del made in Italy.  Secondo il membro della London School of Economics: “Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. L’Italia negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. Di conseguenza, l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa”. Dal punto di vista sociale tutto ciò ha distrutto la classe media.
And last but not least c’è anche l’impatto dei fenomeni migratori. Sarebbe riduttivo, però, riferirsi solo ai profughi, ossia ai clandestini. Basta guardarsi in giro per vedere gli esercenti italiani, strozzati da mille gabelle, chiudere le proprie saracinesche. Spuntano come funghi, invece, le imprese commerciali dei migrantes che violano sistematicamente ogni regola. Per non parlare del dumping sociale. Per elevare la qualità di vita dei lavoratori importiamo a basso costo gente disposta a tutto pur di mettersi in tasca qualche euro. Una mossa assai intelligente!
Ma se qualcuno osa affermare queste considerazioni di puro buon senso è messo all’indice come populista, razzista, retrogrado e via dicendo. Si dice che così va il mondo. Ma non è così. Qui la battaglia deve essere culturale. È necessario spezzare la gabbia dell’omologazione e del politicamente corretto. Il fine è quello di dimostrare che abbiamo il diritto di costruirci il nostro futuro. L’Italia deve rappresentare un valore aggiunto. Questa è la differenza tra essere Europa e subire i dikat dell’Ue.
Cambiando la prospettiva, le conseguenze sono visibili a tutti. Questo vale per la nostra visione del credito e del risparmio. Non dobbiamo imparare niente da nessuno. Facciamo qualche nome per capirci meglio: Alberto Beneduce, Adriano Olivetti, Enrico Mattei, Donato Menichella, Guido Carli. Come si può notare Christine Lagarde e Mario Draghi ne escono leggermente ridimensionati.
Infine, non bisogna dimenticare la forza distruttrice dei flussi migratori. Il volto dell’Italia rischia di essere cancellato per sempre. Non c’è nessuna possibilità di integrazione in questo quadro demografico. È in atto un processo di Grande Sostituzione. Gli italiani, insomma, rischiano di essere solo materia di studio per gli antropologi di domani. Di fronte a questo scenario bisogna reagire per non scomparire.
Se queste tematiche non saranno le  priorità della nostra futura classe dirigente, prepariamoci a tornare ad essere una semplice espressione geografica, come diceva Metternich. Sempre che non lo siamo di già.
Salvatore Recupero

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1 commento

Federico 27 Luglio 2015 - 12:51

Il dramma vero sono state le privatizzazioni senza le liberalizzazioni, che in Italia latitano un po’ tuttora. Sono stati regalati per quattro soldi a capitalisti italiani con le pezze al culo comparti strategici creando veri monopoli privati, basti ricordare lo scandalo SIP-ASST divenuta Telecom. Il settore bancario attualmente è ancora tutelato, senza contare quello dei trasporti.
Quanto all’IRI, non è che sia molto da rimpiangere l’era Prodi…

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