Roma, 29 gen – In un suo recente articolo, Filippo Burla ha spiegato bene come il protezionismo sia di fatto uno strumento eminentemente difensivo rispetto all’aggressività delle economie mercantiliste rispetto a quelle che tendono a privilegiare un altro approccio. Se una forte economia manifatturiera manipola il cambio, sfrutta i lavoratori e rimborsa le tasse a chi esporta, non esiste alcuna forma di difesa alternativa se non imporre un “correttivo” che faccia aumentare “artificialmente” il prezzo di quei beni d’importazione per i consumatori, scoraggiandone o comunque limitandone l’acquisto.
Seguendo questa ispirazione, vorremmo fare un breve accenno sul perché Trump abbia scelto questa strada tutta in salita, partendo dal ruolo imperiale che gli Usa hanno assunto dopo aver schiacciato l’Europa nel ‘45. Con buona pace di Lenin, per cui “l’imperialismo è la fase suprema del capitalismo”, in realtà fare un impero costa e costa molto, essenzialmente per la nazione egemone, mentre talvolta può essere più vantaggioso per la nazione sottomessa, che si ritaglia degli spazi in relativa sicurezza.
L’impero precedente, quello Britannico, si fondava sulla deflazione permanente del Gold Standard, mentre quello Usa si fonda sulla supremazia del dollaro nelle transizioni commerciali, ottenuta imponendo ai paesi dell’Opec di accettare esclusivamente dollari in cambio del loro petrolio.
Dato che però tutti al mondo hanno bisogno di petrolio, per mantenere stabile il pianeta, gli Usa devono fare sì che i propri Stati-vassalli abbiano i dollari necessari per acquistarlo, e l’unico modo esistente è quello di realizzare cospicui deficit commerciali annuali. Importando dal resto del mondo più di quanto il resto del mondo importa da loro, gli Americani “iniettano” dollari nelle economie straniere, e quelli circolando permettono il commercio internazionale come lo abbiamo conosciuto ora.
Questo sistema ovviamente comporta una graduale deindustrializzazione del tessuto economico americano in favore dei servizi e della finanziarizzazione, e forse l’establishment ha capito che questo equilibrio non è più sostenibile. L’anno scorso gli Usa hanno realizzato un deficit commerciale dell’ordine dei 600 miliardi, probabilmente l’idea è dunque quella di riportare in equilibrio i conti con l’estero con le buone o con le cattive. La svalutazione del dollaro, la riforma fiscale ed i dazi sono tutte misure coerenti con questa nuova impostazione di politica economica che in realtà deriva da un nuovo paradigma di politica estera.
L’egemonia finanziaria del dollaro è stata ampiamente scalfita dalla Russia e dalla Cina che già non lo usano più per regolare i loro accordi bilaterali, e questo sembra aver dato il via ad una graduale, contraddittoria ma inarrestabile “de-dollarizzazione” del pianeta. Gli Usa forse stanno cercando di adattarsi a questo nuovo mondo, anche se sembrano incapaci di accettare realmente il multipolarismo. In ogni caso, è questo lo scenario in cui ci troveremo per i prossimi anni, e sta a noi riuscire ad interpretarlo correttamente, mandando al governo persone che sappiano affrontare un così radicale cambio di paradigma. Non si è mai visto un impero che abbia rinunciato alla sua egemonia senza un bagno di sangue, anche questo è bene tenerlo sempre a mente.
Matteo Rovatti
Trump e i dazi doganali: così gli Usa rinunciano alla propria supremazia?
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