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Apple riduce la produzione in Cina. Ma il coronavirus è solo l’ultimo dei problemi

by Alice Battaglia
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Apple in Cina

Roma, 18 feb – È di queste ore la notizia che Apple ha ridimensionato le proprie aspettative sui ricavi nel secondo trimestre, in ragione degli effetti nefasti del coronavirus (anche) sull’economia. La società, che ha in Cina la maggior parte della propria produzione di iPhones, ha annuncia che le forniture dei telefoni cellulari da anni assunti a status symbol saranno “temporaneamente ridotte” a livello globale.

Condizioni disumane per i lavoratori

Ma se oggi si parla di quelle fabbriche perché momentaneamente a mezzo servizio, noi vogliamo ricordare che solo pochi anni fa se ne è parlato per altri motivi, non meno drammatici. Già nei primi anni del decennio passato, varie organizzazioni sovranazionali e non governative avevano puntato il dito contro gli stabilimenti cinesi di Apple, colpevoli almeno in teoria di trattare i propri operai con metodi che in Occidente, ad esempio, sarebbero considerati inammissibili dalle leggi sul lavoro. A seguito delle numerose accuse, in tempi in cui – per fortuna – una pessima etica può incidere in modo negativo sugli affari commerciali, Apple in accordo con il subappaltatore locale Pegratron Corp decise di aprire le porte della propria fabbrica di Shangai a un giornalista occidentale.

Ore estenuanti e trattamento iniquo

Lo stabilimento, grande come novanta campi da calcio, impiega più di 50.000 persone e ha nella sua estetica una sorta di rimando all’immaginario della fantascienza distopica, tra poster motivazionali sui muri che costeggiano una catena di montaggio sorvegliata e reti di sicurezza drappeggiate lungo le trombe delle scale, per cercare di evitare i suicidi più che gli incidenti. Le estenuanti ore di lavoro e il trattamento ricevuto dagli operai, difatti, rendono la statistica sulle morti volontarie del tutto sfasata tra il mondo “fuori” e quello “dentro” la fabbrica.

Buste paga raggelanti

I portavoce della gigantesca officina si scuotono di dosso le accuse, affermando che “il controllo all’apparenza militare dei tesserini, ad esempio, serve ad evitare che gli operai facciano straordinari che nuocerebbero alla loro salute”. Ma China Labour Watch, un’organizzazione che sostiene i diritti dei lavoratori, ha analizzato un contenuto numero di buste paga tra settembre e ottobre 2015 e rilevato che per oltre mille salari era testimoniato l’uso sistematico di ore straordinarie. A corroborare questa tesi, inoltre, molti degli impiegati dello stabilimento hanno confermato la necessità di lavorare oltre il normale orario per raggiungere uno stipendio dignitoso: a conti fatti, ogni iPhone prodotto costa più del doppio del salario mensile di uno degli operai che lo produce e assembla, in condizioni di lavoro che in Europa sarebbero sanzionabili per legge.

Capitalismo senza freni

Le linee di produzione si erano fermate solo una volta prima dell’avvento del coronavirus. E le uniche sanzioni che Apple e Pegatron hanno accettato di pagare nel massimo riserbo sono quelle destinate alle famiglie degli operai come Tian Fulei trovato morto per la stanchezza a soli 26 anni all’interno della fabbrica. Per la multinazionale “figlia” di Steve Jobs, la vita di Tian valeva un po’ meno di diecimila euro, quasi dodicimila grazie all’aiuto della polizia. Per il capitalismo senza freni, è evidentemente un prezzo più che accettabile.

Alice Battaglia

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