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Tra Brexit e ritorno del nazionalismo: il nuovo Regno Unito di Boris Johnson

by Tommaso Alessandro De Filippo
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Boris Johnson

Roma, 22 gen – Daniele Meloni rappresenta uno dei massimi esperti di politica e società del Regno Unito presenti in Italia. La sua esperienza di vita e i suoi studi gli hanno fatto acquisire una conoscenza dettagliata sul mondo britannico, che racconta quotidianamente attraverso le proprie collaborazioni professionali. Pertanto, la sua ultima fatica letteraria, intitolata Boris Johnson: l’ascesa del leader conservatore e il Regno Unito post Brexit e pubblicata di recente da Giubilei Regnani, rappresenta molto più di un libro incentrato sull’attuale premier britannico.

Boris Johnson: ritratto di un leader

Certo, la figura di Boris Johnson risulta fondamentale per comprendere gli sviluppi politici successivi al referendum sulla Brexit. Infatti, l’apporto del premier è risultato decisivo per sconfiggere i sentimenti nostalgici verso la Ue dei laburisti, oltre che le resistenze dell’Unione in materia di accordi economici e commerciali. Anche dal suo futuro dipenderanno i nuovi equilibri interni al Partito conservatore, chiamato a restare unito per evitare decisivi fallimenti elettorali alle prossime elezioni.

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Il nuovo nazionalismo britannico

Tuttavia, un ulteriore punto cardine del testo è racchiuso nel sentimento nazionalista che torna d’improvviso d’attualità, in Regno Unito come in altre nazioni europee. Un collante tra le classi sociali che si riconoscono nella difesa del proprio popolo e nel rifiuto delle prevaricazioni politiche esterne, su cui spesso la Ue si concentra per esercitare la propria ingerenza. La lettura del testo di Meloni potrà fungere d’esempio per comprendere e immaginare anche gli sviluppi istituzionali futuri di altri Stati, tra cui quello italiano. Spesso gli scenari maggiormente inattesi possono tramutarsi in realtà attraverso la convinzione di dover esercitare la difesa della propria terra, sia pure remando contro gli interessi delle unioni di turno.

Intervista a Daniele Meloni

Boris Johnson

Quali sono i principali avvenimenti politici che segnano i presupposti per l’arrivo di Boris Johnson a Downing Street?

«Boris Johnson era già un personaggio pubblico conosciuto dagli inglesi e uno dei politici più celebri del Partito conservatore quando era sindaco di Londra. Ma è con il suo ruolo decisivo nel referendum sulla Brexit che la sua carriera politica decolla e la sua ambizione di diventare primo ministro inizia a farsi concreta. Poi, dopo che Theresa May nel 2017 viene azzoppata dal risultato elettorale, appare a tutti evidente che solo Johnson può portare ai conservatori una maggioranza assoluta alla Camera dei comuni e condurre in porto la Brexit. Il risultato della Christmas Election del 2019 costituisce il vertice massimo della sua popolarità: i Tories non ottenevano così tanti seggi dai tempi di Margaret Thatcher».

In che modo ritieni che la Brexit abbia trasformato la società e la politica nel Regno Unito?

«La Brexit ha creato una nuova linea di faglia nella politica inglese tra favorevoli all’uscita dalla Ue, i Leavers, e i favorevoli al mantenimento dello status quo, i Remainers. Per quattro anni non si è parlato d’altro, e il risultato delle elezioni del 2019 è largamente il risultato di questa polarizzazione. Alla fine, anche i partiti europeisti come i LibDems, o quelli come il Labour che chiedevano un secondo referendum, si sono arresi e hanno accettato la Brexit. Quanto alla trasformazione della società, io direi più che altro che la Brexit è stata una conseguenza della trasformazione della società e una risposta agli aspetti peggiori della globalizzazione da parte dell’elettorato che negli ultimi 20 anni non ha potuto approfittare delle sue opportunità».

Tra i punti cardine del tuo testo spicca il ritorno del nazionalismo inglese, in un momento storico dove questo sentimento è considerato obsoleto dalla maggioranza del mainstream. Ce ne parli?

«Il nazionalismo inglese è la forza che ha determinato la Brexit e anche il rinfocolarsi dei nazionalismi delle home nations, e cioè quelli scozzesi e nordirlandesi. Non è un caso che dopo il referendum sull’indipendenza scozzese del 2014 l’allora premier David Cameron promise di risolvere una volta per tutte la questione inglese con l’adozione in Parlamento di un sistema di voto che favorisse i deputati eletti in Inghilterra nell’approvazione delle leggi che riguardavano il territorio inglese. Poi è arrivata la Brexit: tra i circa 17 milioni di voti favorevoli, oltre l’87% proveniva dall’Inghilterra. La Brexit dovrebbe chiamarsi in realtà EngXit, perché è stata un fenomeno in larga parte inglese. Nel corso degli anni abbiamo rivisto i simboli dell’Inghilterra apparire di nuovo nelle città inglesi e non solo: provate a confrontare le bandiere dei tifosi allo stadio per la finale dei mondiali di calcio del 1966 e quelle per la finale degli ultimi europei. Nel ’66 un tripudio di Union Jack, nel 2021 quasi solo croci di San Giorgio».

In che modo il recente scandalo del Party-gate può incidere negativamente sulla figura del premier britannico e sulla sua leadership?

«Si tratta di una questione molto delicata, a maggior ragione visto che alcuni di questi drink post-lavoro sono avvenuti nel periodo di lutto per la morte del principe Filippo. Downing Street si è scusato ufficialmente con la famiglia reale per questo. Johnson è piuttosto accerchiato: media e opposizione lo stanno massacrando invitandolo a dimettersi. Ma la questione è usata anche e soprattutto dai parlamentari della sua maggioranza scontenti per come sta governando altrimenti non avrebbe avuto questa risonanza. Difficile pronosticare cosa potrà succedere: Boris Johnson potrebbe essere costretto alle dimissioni ma potrebbe anche rilanciare. Molte volte è stato dato per morto politicamente e poi è magicamente rinato».

Da esperto del Regno Unito e delle sue vicende politiche, come prospetti gli equilibri interni al Partito conservatore?

«Il Partito conservatore non è mai stato tenero con i suoi leader. Non lo è stato con Churchill, non lo è stato con Eden, non lo è stato con Thatcher, Major, Cameron e May. In questo momento, paradossalmente, Boris Johnson è il punto di riferimento dei tanti che si situano al centro e pensano che cambiare leader adesso sarebbe un azzardo. Ci sono tante correnti e gruppi nel partito – come logico che sia in un movimento che ha il 40% dei consensi – ma si fatica a vedere un’opposizione organica a Johnson o candidati capaci di sfondare negli ex collegi laburisti della muraglia rossa nelle Midlands e nel Nordest come ha fatto lui nel 2019».

Nonostante alcune difficoltà elettorali riscontrate dai conservatori, i Labour non sembrano riusciti a riacquistare un ampio consenso. La loro debolezza potrà rivelarsi un decisivo alleato di Johnson alle prossime elezioni?

«Da quando è stato eletto leader, sir Keir Starmer ha fatto dei passi avanti, anzi, al centro, per riposizionare il partito. Ha abbandonato l’europeismo, anche perché lui fu l’artefice della disastrosa politica post-Brexit dei laburisti, e ha avvolto il Labour nell’Union Jack. In questo momento i sondaggi lo danno molto avanti, ma più che un sentimento popolare pro-Labour sembrano rimarcare una disaffezione dell’elettorato nei confronti di Johnson e di un partito che governa ormai da 12 anni. I problemi, però, non mancano anche per Starmer. Prima di tutto, all’interno del partito la sinistra radicale orfana dell’ex leader Jeremy Corbyn contesta la nuova linea centrista. Poi il maggior sindacato affiliato, Unite, ha annunciato un taglio dei fondi e la sua nuova leader, Sharon Graham, non si è neppure presentata all’ultimo congresso del partito, affermando di “voler occuparsi dei suoi iscritti e non di politica”. Una presa di distanza netta e che fa riflettere».

In che modo prospetti le relazioni politiche e commerciali future tra Regno Unito e Unione europea?

«Londra e Bruxelles continueranno a commerciare e a collaborare fattivamente all’interno degli organismi sovranazionali, Nato e Onu su tutti. Le tensioni attualmente sono ancora alte. Di recente il battibecco tra Johnson e Macron sui pescherecci e il mancato sblocco del protocollo nordirlandese non hanno certo abbassato la temperatura della contesa. Comunque, vale sempre la pena di osservare che l’accordo del dicembre 2020, pur con tutti i suoi difetti, è un unicum nella storia dell’Unione europea: nessuna nazione ha mai ottenuto dei legami commerciali così stretti con Bruxelles, per cui c’è la volontà di continuare a fare affari e a cooperare anche in futuro».

A distanza di anni dal voto sulla Brexit, ritieni che altre nazioni europee possano intraprendere un percorso d’uscita dall’Unione?

«È difficile da dirsi. La prospettiva britannica è diversa da quella degli altri Paesi: un parlamento antico e geloso delle sue prerogative; un rapporto come nessun altro con gli Usa; i legami con i Paesi del Commonwealth; la forza economica e finanziaria della City. Nessun’altra nazione ha questi atout a disposizione. Certo, Bruxelles non deve pensare che, calando dall’alto le sue politiche, non ci sia una reazione di rigetto da parte delle nazioni che fanno parte dell’Unione. I casi di Polonia e Ungheria lo dimostrano. Ma lo dimostra anche la Francia, dove la campagna elettorale sembra un grande referendum tra nazionalismo francese e sovranismo europeista».

Che ruolo geopolitico può giocare la Gran Bretagna nell’epoca del bipolarismo tra Usa e Cina?

«Il Regno Unito è saldamente ancorato all’alleanza atlantica. Gli inglesi dipendono dagli Usa per il loro deterrente nucleare, ma non sono “utili idioti”. Nella nuova strategia di politica estera britannica denominata Global Britain – e presentata alla Camera dei comuni nel marzo 2021 – la regione dell’Indo-Pacifico viene definita cruciale per gli interessi britannici e per i destini del mondo. Gli inglesi vogliono aumentare la loro presenza nell’area, anche a dispetto di quanto pensano gli americani, che con il segretario di Stato Blinken li hanno invitati a restare dalle loro parti, perché più utili altrove. C’è poi l’aspetto commerciale, tutt’altro che secondario: il Regno Unito è dialogue partner dell’Asean e ha appena iniziato le negoziazioni per l’ingresso nell’Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico (CPTPP), una associazione tra undici Stati che vale il 13% del Pil globale. L’attenzione per l’Asia, le economie e le classi medie emergenti è assoluto. A maggior ragione dopo la Brexit».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Mi piacerebbe continuare a raccontare questo meraviglioso Paese. Ho in mente di scrivere altri libri sul Regno Unito, non voglio certo fermarmi a questo».

Tommaso Alessandro De Filippo

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