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“Chi gioca col fuoco si brucia”. La Cina alza il tiro su Taiwan, ma la guerra (per ora) è sui chip

by Eugenio Palazzini
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Roma, 15 apr – “Chi gioca con il fuoco si brucia”. E’ la velata minaccia di Shi Yilu, portavoce del comando dell’Esercito di Liberazione Popolare, “in risposta al recente rilascio di segnali sbagliati da parte degli Stati Uniti sulla questione Taiwan”. Nessuna esplicita menzione riguardo alla visita della delegazione americana a Taipei, ma un chiaro monito. “I trucchi degli Usa sono inutili e pericoloso. Chi gioca con il fuoco si brucia”, dice Shi Yilu. La Cina alza dunque il tiro, non accettando intromissioni degli Stati Uniti in quelli che considera affari interni e ha annunciato di aver dispiegato “forze navali e aeree pronte al combattimento”.

Taiwan, così la Cina avverte gli Usa

Come noto, Taiwan per Pechino non è altro che un’appendice, un’isola appartenente alla Cina punto e basta. Così il dragone asiatico risponde duramente alla visita di sei parlamentari statunitensi (bipartisan, essendo la delegazione Usa composta sia da repubblicani che da democratici), attualmente in corso a Taipei. Non c’è, come precedentemente ventilato dai media Usa, la speaker della Camera Nancy Pelosi. Il segnale americano è comunque piuttosto evidente, quanto rischioso soprattutto in questa fase: sostegno a Taiwan. Il momento è appunto particolarmente delicato, anche per via dell’attacco russo in Ucraina, con molti analisti che temono un attacco cinese a stretto giro all’ex isola di Formosa.

La guerra vera è sui chip

In realtà, frequenti esercitazioni militari e aerei da guerra fatti sorvolare sui cieli di Taiwan a parte, non spirano davvero venti di guerra. Meglio, la Cina non sembra intenzionata a sferrare un attacco a breve, è semmai concentrata su un altro tipo di conflitto con Taipei: quello sui microchip. Ne è ben consapevole anche la delegazione americana recatasi a Taipei. “Taiwan produce il 90% dei semiconduttori a livello mondiale, è un Paese che ha una importanza, delle conseguenze e un impatto mondiale e, quindi, è chiaro che la sua sicurezza ha un impatto globale”, ha fatto notare il presidente della commissione per le relazioni estere del Senato Usa, Bob Menendez, durante l’incontro con il presidente taiwanese, Tsai Ing-wen.

Come ricordato dall’economista Salvatore Recupero su questo giornale, ad accorgersi dell’importanza della partita sui microchip fu già l’ex presidente Usa Donald Trump, nel 2019. Il tycoon disse che quella dei semiconduttori era una questione di sicurezza nazionale, perché d’altronde anche l’industria di armi fa ampio uso di microchip. Poi Biden, nel febbraio 2021, inserì 50 miliardi di dollari nel pacchetto di stimoli da duemila miliardi destinandoli alla ricerca. “Il disegno di legge si chiama Chips for America Act. Un provvedimento che fornirà incentivi pubblici all’industria di chip. L’obiettivo è rendere gli Usa più indipendenti dall’industria straniera”.

Spy story in salsa cinese

Adesso Taiwan prova a proteggere la propria leadership sui microchip, in particolare relativamente ai tentativi di “spionaggio” economico e tecnologico. Al riguardo il governo di Taipei sta valutando di introdurre una serie di norme che prevedono pene fino a 12 anni di carcere per coloro che agevolano l’ottenimento di tecnologie nazionali strategiche da parte delle “forze nemiche straniere”. Con queste ultime si intende, ça va sans dire, essenzialmente la Cina. Stando inoltre a quanto riportato dalla Reuters, Taipei ha avviato indagini su circa 100 aziende cinesi sospettate di aver tentato la sottrazione a Taiwan di ingegneri proprio nel settore dei chip.

Eugenio Palazzini

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