Roma, 31 gen – Che siano le marce delle donne, o gli scioperi dei tassisti, o le manifestazioni più o meno violente negli atenei e negli aeroporti il copione è oramai chiaro: anche gli Usa stanno conoscendo qualcosa che a noi europei è ben familiare. E cioè che quando alla parte politica sedicente più democratica e civile capita di perdere le elezioni, questa tenta in ogni modo di arrivare con il caos e la violenza di piazza lì dove non le è riuscito di arrivare con i voti. Tutto, nella vicenda Trump, è sopra le righe. E non solo il diretto interessato, anzi. A partire dall’allineamento dei principali media nel diffondere scientemente dati sbagliati volti a condizionare l’elettorato, dandogli l’impressione che la partita elettorale fosse pressoché decisa già da un anno e fino al giorno prima delle elezioni. Il borsino elettorale del New York Times e del Washington Post, in particolare, assegnava fino alla vigilia del voto circa un 90% di possibilità di vittoria a Hillary Clinton. Decisamente troppo, alla luce del risultato finale, per non concludere che ci sia stato qualcosa di più del solito “non siamo riusciti ad intercettare la pancia profonda del Paese che sfugge alle rilevazioni”. Il resto è storia ancor più recente: lo struggente ed interminabile addio a San Barack Obama, fondi e prime pagine dedicate a quanto Donald e Melania Trump non siano riusciti a tenere il tempo durante il ballo in occasione della sera dell’insediamento, approfondimenti televisivi ed in diretta streaming con seminari di ermeneutica linguistica dedicati alle parole ed alla mimica del nuovo Presidente quando si esprime sulle donne.
Ma adesso si fa sul serio. Aeroporti nel caos, migliaia di persone che assediano la Casa Bianca: dalla violenza verbale si sta passando sempre di più a quella fisica, spacciata come esito inevitabile di una protesta che si vorrebbe montante dal basso contro una serie di provvedimenti legittimamente presi da un Presidente nel pieno delle sue funzioni. C’è poco da fare: è più forte di loro. La tentazione di provare la spallata grazie alla piazza si riaffaccia sovente dalle parti di coloro che hanno il vizio di sentirsi i depositari della civiltà occidentale. In Italia questo lo sappiamo bene. A Genova sia nel 1960 che nel 2001 è andato in scena il medesimo copione. La strategia è duplice, e segue un piano sulla breve ed uno sulla media distanza. Innanzitutto si scatena la piazza nella speranza che l’ovvia e sacrosanta risposta delle autorità consenta ai soliti noti di gridare al fascismo redivivo. In secondo luogo si spera di ottenere l’annacquamento o l’affossamento di norme al solo scopo di poter poi sostenere “vedete: le soluzioni sbandierate non erano attuabili! Il populismo promette ma non mantiene”. Tale strategia è particolarmente evidente nel caso delle questioni relative alla gestione dei flussi migratori. Come in Europa su Orbàn, così negli USA su Trump la successione delle critiche è la medesima. Si passa dapprima da “il problema non si può risolvere innalzando muri o approvando leggi, è epocale” ad un “non sono quelle le soluzioni possibili” per finire con “avete visto che non sono riusciti a risolvere nulla?”.
A cavallo del passaggio fra secondo e terzo momento si inseriscono i tentativi di boicottaggio più o meno legali, mentre tutti e tre sono accompagnati dalla martellante propaganda dei media, volta a trasmettere l’idea secondo la quale il fenomeno non può essere governato, ma solamente accolto. Nel caso specifico del fenomeno migratorio esistono varie sfumature per le quali il fenomeno viene giudicato di per se stesso buono – perché veicolo di ibridazione culturale ed etnica – o non necessariamente buono, ma comunque tale da non poter essere realmente affrontato – perché ogni muro alzato finirà con l’essere abbattuto – . In un caso come nell’altro, l’autentico minimo comun denominatore è dato dalla chiara volontà di privare i governi occidentali degli strumenti dei quali un governo legittimamente in carica e nel pieno delle sue funzioni dovrebbe poter disporre per assolvere al primo e più basilare dei suoi compiti: garantire la sicurezza e la pace sociale dei suoi cittadini mediante un adeguato controllo delle frontiere nazionali. L’amministrazione Trump, a una sola settimana dal suo insediamento, si trova in questi giorni a dover sopportare un formidabile fuoco di fila. Anche l’ONU, che nulla ha mai avuto da eccepire sulla condizione dei cristiani o delle donne nella maggior parte dei paesi musulmani, si permette di entrare a gamba tesa rilasciando, per bocca di alcuni dei suoi massimi rappresentanti, dichiarazioni nelle quali la scelta del neoeletto presidente USA viene definita “illegale e meschina”. Da parte di un organo abituato a tacere da settant’anni sui crimini compiuti dai peggiori dittatori sparsi sul pianeta questo atteggiamento risulta quantomeno sorprendente. E perfino l’ectoplasmica Unione Europea ha l’ardire di bacchettare Trump. In ordine sparso, come si conviene loro, quasi tutti i capi di governo e di Stato europei hanno alzato il sopracciglio di fronte alla ritrovata giovanile barbarie dell’alleato di maggioranza della NATO.
Di sicuro c’è che nessuno sa quale effetto sortiranno le politiche di Trump, né se le sue decisioni varranno a governare i flussi migratori ed a risolvere il problema del terrorismo islamico. In compenso, per non sbagliare, noi europei ci teniamo ben stretta la nostra soluzione ai problemi suddetti. Che suona nel modo seguente. Primo: accogliere tutti, profughi e non. Secondo: fare finta di controllare gli immigrati, per poi espellere i non aventi diritto allo status di rifugiato, salvo concedere loro almeno un appello per impugnare l’espulsione. Terzo: perso l’appello, sanzionare i clandestini con uno splendente pezzo di carta con su scritto “mi raccomando, vai via”. Quarto: pagare profumatamente la Turchia, un paese non europeo, in odore di islamismo, chiaramente diretto da un governo autoritario, nella speranza che controlli le frontiere al posto nostro. Quinto: qualora un paese europeo come l’Ungheria le frontiere le controllasse sul serio, a sue spese, onde far rispettare la legge, svillaneggiarlo e chiamarlo razzista. Sesto: dopo l’ennesimo attentato cambiare l’immagine di profilo fb e scrivere dovunque “je suis X”. Settimo: urlare a gran voce che controllare le frontiere sul serio equivale a fare il gioco dei terroristi. Ottavo: ricominciare dal primo punto.
Per quanto possa sembrare incredibile, gli americani vorrebbero provare una via diversa.
Francesco Forlin
1 commento
grande Francesco !
mi permetterei di aggiungere come “grido di battaglia” passando dal punto 8 a quello di partenza, l’ormai collaudato:
“ahhh non muri ma ponti ahhh”